lunedì 27 giugno 2011

Gli occhi. Breve studio d'impeto numero due. I miei.



Del sapore scuro degli occhi arrabbiati. Sanno di tutta l'acqua che li ha bagnati e non era pioggia e gli occhi del mondo, nel frattempo, ridevano. Sanno della rabbia che li ha animati nel loro forsennato roteare. Sanno dei cuscini che li hanno accolti quando avevano troppa paura per guardare. Sanno di tutti gli altri occhi che avrebbero voluto sfidare e vincere. Sanno del suolo che hanno visto dopo ogni fallimento. Sanno delle spalle che hanno occluso loro lo spettacolo dell'essere primi. Sanno un poco pure della debolezza e delle paure e del rimorso e della vigliaccheria e dell'amore smodato per quel che ha saputo dar loro sempre nuova speranza. Sanno di mille pagine divorate al lume di una candela che ha sbagliato secolo. Sanno di nomi e facce che non sono mai esistite se non nei nomi e nelle facce di chi li ha pensati. Sanno della battaglia rimandata. Sanno di un rancore che non cede il passo alla serenità. Sanno di ogni occhio che ci si è fermato dentro un istante. Sanno di dolore perché ne hanno un bisogno malato. Sanno della stupidità immensa dell'essere adulti. Di queste poche cose soltanto, sanno davvero i miei occhi.

Gli occhi. Breve studio d'impeto numero uno. I tuoi.



Di sorrisi che spingono le orbite al cielo ma di silenzi che le fanno ripiombare in fondo allo stomaco. Di ingenuità delicata e cattiveria per finta. Di emozioni guardate con avidità e attese desiderate terribilmente sotto alle palpebre. Sanno dello sforzo tremendo di guardare nel buio, quando il resto della casa e della strada e della città e del mondo, sta stupidamente dormendo. Sanno del gusto proibito delle cose belle che finiscono in fretta e non spettano a tutti e non a comando. Sanno di disobbedienza. Sanno di mancanza d'orientamento. Sanno di quell'odore malsano che provoca la pazzia, quell'odore di fame insaziabile. Di questo sanno, i tuoi occhi per come li vedo.

sabato 25 giugno 2011

Morte di un complesso viaggiatore.


Chiusa qui dentro, è una lunga gestazione di parole roventi, animate dall’atavica cattiveria della sopravvivenza.
Nulla resta davvero per sempre sul fondo ed affiora, rinasce, risale la corrente.

In luogo del delitto.



Quando ho potuto combattere, ho riposto con cura le armi per il solo timore di non riuscire a vincere battaglie ancora più grandi ed eroiche e pericolose. Quando ho potuto sedere, tenendo la faccia stanca tra le mani e riflettere e perdermi in pensieri costruttivi, ho corso per il solo timore d'esser raggiunto e interrogato. Quando ho potuto liberarmi, ho preferito cedere ad un lamento sordo e costante, un sibilo tra i denti, un vibrare leggero di labbra, un impercettibile suono di ribellione. Quando ho potuto far casa dello spazio libero sotto ai ponti, ho preferito circondarmi di cose inutili e persone poco disposte a farsi possedere senza nulla in cambio. Quando ho stretto i tuoi polsi dentro ai palmi delle mie mani. Quando ho strisciato, consapevole dei limiti fisici delle mie ginocchia. Quando ho camminato freneticamente intorno ai luoghi che ospitavano la tua cattivissima indifferenza. Quando ho fumato il mio desiderio in notturni pacchetti da venti. Quando ho rubato a me stesso. Quando ho saputo ficcarmi qui dentro tutto il dolore dei tuoi sbagli fintamente ingenui. Quando un coraggio soltanto accennato mi ha fatto scoprire codardo, punendomi col dolore della consapevolezza che altri hanno potuto dormire il tuo sonno. Quando mi sono lasciato cercare e trovare. Quando ti ho spiegato mille volte che forma potevano avere le mie parole. Quando ho fatto il possibile per sentire la tua piccola mano ribellarsi in uno schiaffo veloce. Quando ho dovuto sentire le tue labbra coi denti e tu non te lo aspettavi. Quando ho perso il sonno, irriso il giorno, adorato la notte, cambiato atteggiamento, ostentato il sorriso, mentito a me stesso per farti felice. Quando ho fatto tutto questo, nemmeno me lo ricordo.

sabato 4 giugno 2011

Sconosciuto al binario.



Stanco e distrutto,
completamente annientato da quest’odore dolciastro che non vuol saperne di lasciar le narici.
Quasi lo vedo e diviene palpabile a tratti,
un tanfo nauseabondo di salute e dramma al contempo.
Un olezzo che cura il corpo ed attacca l’indole allegra di un uomo comune.
Sono stanco di respirare luci al neon blu e linoleum che fischia al puntare d’un passo deciso.
Sono stanco della parete oltre la grata,
forse che la malattia voglia davvero lasciare questa carne saporita e bianca?
Sono terribilmente sconfortato dalle lungaggini burocratiche di questa fine drammatica che arriva in fretta ma non abbastanza.
Ogni pianto di là nel corridoio è una scena di troppo,
già da un pezzo avrebbero fatto figura migliore i titoli di coda,
i saluti ed i ringraziamenti a ciascuna comparsa.
Non posso più sopportare il peso infinito dell’ago che affronta la resistenza neghittosa della pelle precocemente invecchiata,
il buco violento che ne consegue.
Non tollero più il cotone stretto al braccio,
né gli sguardi odiosi della pena.
Arriva il quarto a mezzogiorno ed il pranzo è servito dall’alto.
Scatena l’inferno nelle viscere ogni sorso a lenire la sete.
Con magistrale cadenza ed elegante solidità,
un flusso costante che prolunga le riflessioni amare del poco tempo rimasto.
Dannazione.
Tutto il dolore della dipartita,
mentre ancora ci si dibatte al suolo tra i vivi.
Tutta la follia del corpo che cade in pezzi minuscoli ma nessun segno di morte.
Nessuno che afferri questo polso disposto a lasciarsi portare.
Nel rumoroso andirivieni della stanza,
nell’umido e mesto alternarsi di visi strappati alla quotidiana apprensione,
nella vita oltraggiosa di chi non ammala e non muore,
ad ogni istante è ancora odore dolce di salute temporanea,
di suolo asettico e resistente al destino.
Voglio respirare, mio Dio!
Voglio sentire il cherosene farsi liquido sulla lingua,
i pneumatici puzzare di vettura nuova fiammante.
Desidero avvertire di lontano l’acre miasma dell’essenza di semi che frigge per la centesima volta,
il profumo del cioccolato che presagisce un sapore ancora migliore.
L’odore mesto della casa alla sera,
dopo due pasti e il silenzio della giornata di lavoro.
Voglio vivere come si vive o morire.

venerdì 3 giugno 2011

Nell'addome del padre.



Seduto ai bordi della strada, i pantaloni di cotone grosso nel fango. Veloce, lungo le pietre e in mezzo alla polvere. Niente case ad intralciare la vista. Sdraiato. Immerso nella salsedine morbida che avvolge la pelle. Le caviglie nel grano, i polsi nell'acqua, la faccia dentro alla terra. In tavola il pasto quotidiano che ristora la schiena, le donne mute e la farina fino ai gomiti. Le piccole giacche sdrucite, poche lezioni per imparare a firmare. La raccolta al mattino, l’alba in cornice, in mostra perenne. La bestia che scaccia l’insetto, i denti piantati nel fieno. Le scarpe senza stringhe, i piedi senza scarpe. Le grandi foglie verdi coi frutti che pungono e fanno star male, le uova rubate al sonno pomeridiano del fattore, il latte nel secchio, il formaggio in soffitta, il vino sottochiave. I romanzi a due lire sotto alla pietra grossa, nell'orto. La fantasia femminile repressa, la figlia del contadino disposta a pagare, le poche letture di una larga periferia senza centro, bianca, silenziosa, acre. I cani rincorsi nei vicoli, i roghi, le forche cattive dei bimbi di strada. La carne alla domenica, una domenica al mese. Le grosse fette di pane, sporche di qualcosa che avesse sapore. L’educazione senza parole, il pudore inflitto a schiaffi, le madri sveglie fino al mattino, otto in un letto. Le vecchie, immobili sulle sedie impagliate. Nel secchio appeso al muro, il giardino invidiato, le liti spiate, le risa senza rimorso, i furti senza peccato, le albicocche mature fino a scoppiare, la brace accanto alla porta, la cenere per spegnere a sera. Il lutto pesante dei lunghi giorni d’estate, il destino patriarcale inflitto alle vedove, il carretto col ghiaccio, il vaso comune per rovesciare i bisogni, le necessità relative. Una piccola sopravvivenza quotidiana, masticata come la prima gomma portata dai soldati. Lo stupore dei bimbi, le divise cucite sui volti neri di alcuni strani americani. Le capre ed i pesci, gli odori frammisti all'olezzo, le rare nebbie all'altezza del capo, le sigarette di giunco rubate alle scope solerti, i corpi vestiti a festa lungo i ruvidi muri della stanza e i balli proibiti sotto gli occhi dei padri, l’amore senza toccarsi. Nei solchi che una volta erano caldo ristoro per le zampe trainanti delle bestie da soma, persi tra i fumi del sottosuolo appena smosso, senza respiro. Nella sabbia dei fondali dove oziano i molluschi. Nella paglia bagnata. Tra i rovi, dove si nascondono i dolci frutti selvatici. Camminando senza motivo.