venerdì 28 settembre 2012

Pari e disperi.


Vorrei un panino freddo nel buio di un bar di New York, mentre fuori suonano le sirene della polizia. Vorrei una notte meno cattiva, un giorno meno prevedibile, una sigaretta senza vizio. Vorrei una birra che scivoli sul bancone, finendo nel palmo aperto della mano destra. Vorrei una biro sopra l’orecchio ed una montagna di capelli neri e ricci, un taccuino per appunti sempre pieno. Vorrei due amici a cui regalare il riposo, un letto sempre disfatto. Vorrei del vino. Caldo in tazza grande, tenerlo tra le mani mentre intorno è inverno, pieno, gelido, pesante. Vorrei un volto liscio su cui sferrare pugni con le nocche serrate. Vorrei un pavimento bianco, per vedere le gocce del sangue. Vorrei, spossato, soltanto il sonno che prende al collo le menti esasperate, i cuori stanchi, gli occhi troppo a lungo spalancati sul mondo. Vorrei ricominciare. Abbandonare. Sussurrare. Scrivere. Camminare. Vorrei non volere e invece voglio. Non è forse questo il luogo perfetto? Nell’angolo oscuro, dove la stanza sfugge alla luce artificiale? Dar voce alle dita e torpore alla bocca. Vorrei tante e troppe cose che non posso avere e molte ancora che non so descrivere, qualcuna che ho paura di chiamare per nome. Soltanto piccole frasi, belle parole, un’onda leggera che stringe gli occhi all’ora tarda. Vorrei, ma non piango. Solo perché sono grande.



domenica 29 luglio 2012

Lottava. Meraviglia del mondo.





Ovunque poserai lo sguardo, non chiudere gli occhi. Così mi disse il vecchio. E mi voleva bene. E qualcosa di vero doveva esserci. E allora per anni non chiusi gli occhi. E pensai di essere guarito. Così, in un piccolo giorno d'estate, mi fermai a sedare la sete. E portando alle labbra un bicchiere di vino, mi accorsi che queste stavano persino sorridendo. Ed era sollievo. Il sollievo dell'ossessione che finalmente t'abbandona. Il sollievo dei ricordi che ti lasciano in pace. Quello del cuore che respira. Rimasi più o meno dieci anni con gli occhi aperti. Imparai a dormire senza abbandonare le palpebre. Non fu facile. Per niente. E il vecchio, che nel frattempo aveva salutato la terra per sempre, aveva maledettamente ragione. In quel pomeriggio minuscolo, dentro all'unica estate senza lacrime, bevvi un altro bicchiere. E smisi d'aver sete. Dal sorriso alle parole di conforto, il passo è breve. E presi ad augurare ogni bene a chiunque mi capitasse a portata di braccia. Guarito. Definitivamente. Avrei dovuto dirlo a tutti, di come si può dimenticare, semplicemente tenendo a mente di non chiudere gli occhi. Nulla sembrava poter più accelerare il ritmo cardiaco senza ch'io lo volessi. Tenendo gli occhi sempre bene aperti, avevo camminato. Avevo camminato tanto che, dopo aver bevuto e chiacchierato con le ombre di quel pomeriggio sereno, pensai di potermi concedere un secondo. Un solo secondo con gli occhi chiusi. Questo ebbi a desiderare, chiudere gli occhi di nuovo, solo per un momento. Non seppi resistere alla tentazione di dimenticare le parole grevi del vecchio. Lui no, non aveva mai parlato di una tregua. Né del riposo. Colpa del vino. Colpa della libertà dell'anima dal giogo dell'amore proibito. Colpa del pomeriggio e del caldo. Pensai pure che, ritrovato il buio delle palpebre abbassate, avrei saputo insegnare meglio agli altri come ritornare liberi dai sentimenti. Un terzo bicchiere, non per la sete, non per quella della bocca. Non seppi nemmeno riflettere. Riflettere sul piacere del poter abbandonare i muscoli del viso. Come un colpo di vento che porta sabbia sui bulbi. Così chiusi gli occhi. Li riaprii immediatamente. Un tempo tanto minuscolo, da non poter essere quantificato sul polso. Li riaprii col fiato che mi mancava. Non appena la luce tornò a prendersi il mio sguardo, lei apparve. Bellissima come non l'avevo immaginata mai. Dolorosa come la fame più lunga. E non che ci fosse qualcuno intorno, oltre alla sciatta locandiera. Nessuno, tranne me e la mia malattia. E per aver chiuso gli occhi un momento, non seppi davvero riaprirli mai più. Questo è il tedio che capita di dover sopportare. Questa è la punizione anticipata per i peccati che forse non si commetteranno mai. Il vecchio aveva ragione da vendere. Solo con gli occhi aperti si può sfuggire ai sogni. Forse persino fermarsi un attimo ad esser felici.




lunedì 23 luglio 2012

Solo. Andata.


Partiremo insieme, come mille volte abbiamo progettato di fare. Arriveremo lontano, come ci è sempre piaciuto sperare. Torneremo indietro e saremo più felici di prima, perché saremo finalmente, l'uno per l'altra, anche un odore. E con questa storia delle partenze, ci abbiamo tenuto a bada le notti. Con la brama di obliterare, che neanche è più necessario, abbiamo scatenato la nostra ira sul cuscino perennemente madido di desideri. Imprecisi ma forti. E non importa se neanche sappiamo ancora come suona la nostra voce al mattino, subito dopo avere aperto gli occhi. Non importa se in cuore non portiamo il battito del sentirsi chiamare all'improvviso, girarsi, e trovarsi l'uno ad un passo dall'altra, come fosse la cosa più naturale del mondo. Perché si, amarsi in carne ed ossa è una necessità che bisogna prendere seriamente in considerazione. E non importa se in un passato più o meno recente tutto questo è già accaduto. Non importa se ti ho detto cose bellissime e se sono scappato mille volte. Non importa se non mi fido di nessuno e di me ancora meno. Non importa se ti ho spinta dove non ho saputo perdonarti di essere andata. Non importa se mi faccio del male e non so neanche perché. Non importa se la notte suona sempre una musica meravigliosa che la luce del giorno non può capire. Non importa se quel che ho provato è stata l'unica cosa degna di nota di tutta una vita. Non importa se non ho saputo restare per il solo dovere che si dovrebbe a chi ha saputo mostrarti cos'è l'amore incondizionato. Non importa se per strada ho amato la strada. Se al buio ho amato una sconosciuta. Se in viaggio ho amato allontanarmi e persino desiderato non smettere mai di viaggiare. Verrò a prenderti, esattamente come ho immaginato fino allo sfinimento dei ricordi. Non vorrò incontrarti a metà strada, perché sarebbe una sofferenza condivisa e io, invece, voglio correre fino a sentire la bava alla bocca. E il petto stupito dalla mancanza di aria. E le tempie impazzite per lo sforzo necessario ad aspettare quell'ultima, meravigliosa attesa. E non saprò evitare d'immaginarti con un abito a fiori, sottile e sgualcito, come quello di una bimba che lo indossa suo malgrado, mentre vorrebbe mettersi nuda a giocare con le mani nella terra. Non saprò evitare di vederti, chiudendo gli occhi brevemente, con la testa appoggiata allo stipite della porta, la mano destra già sullo spallaccio della borsa, le labbra schiantate dal nervoso mordere dei denti bianchi che sembrano non aver mai neanche mangiato. Ed avrai, lo so, gli occhi viola del peccato più grosso che ho commesso. Quelli verdi della realtà di cui non mi sono potuto nutrire. Quelli azzurri del sonno che non ho lungamente dormito. Cerulei di quando amavo con il cuore di un bambino e la paura di un vecchio. E infine i tuoi. Gli occhi incredibili della sorpresa capitata per caso. Del dubbio. Della pazienza. Del sorriso. Della pazzia. Ci terremo pure la mano, lo giuro, come se non fossero le rotaie a condurci, ma le gambe. Le nostre gambe mai stanche. Ho idea, infine, che dire tutte queste cose con la bocca che freme di saziarsi, sarà l'impresa più ardua che abbia mai tentato. Ho idea che potrò liberare le braccia una volta e per sempre. Ho idea che gli altri passeggeri sorrideranno parecchio a vederci mentre ci terremo stretti i polsi. Perché lo so, faremo il possibile per evitare di sfuggirci ancora. Queste ed altre cose faremo. E saranno tutte indimenticabili. Però domani c'è lavoro, allora partiremo la prossima volta. Intanto tu cerca di essere felice. 



lunedì 4 giugno 2012

A corpo libero.


E' possibile non ci fosse niente altro che amore dentro alle braccia che tenevo libere per te. Niente altro che quel vecchio desiderio di averti. E forse neanche te lo ricordi, di quando avevo il tempo e non sapevo ancora bene cosa farne. Di quando correvo a perdifiato, ogni volta che decidevamo di far finta d'incontrarci per caso. E che pure fosse l'ultima neve, quella vista insieme, forse neanche quello ti ricordi.  E non l'avrei mai detto neanche sotto l'effetto del vino peggiore che abbiamo bevuto insieme. Non l'avrei mai detto ch'io potessi un giorno ripetere gli errori che mi sembrava impossibile tirar via dai metri di terra sotto ai quali li avevo ficcati. E vedi, è per non chiedere aiuto che si finisce come me, lontani da ogni cosa possa lenire un poco il doloroso desiderio di vuoto che si affanna a togliere il fiato ai deboli. E' possibile che mi sia a un certo punto creduto capace persino di non tenere più il conto di tutte le volte che ho provato a togliermi di dentro il bisogno che ho avuto di essere il passo accanto al tuo. Di tutte le volte che ho pensato sarei morto entro il minuto successivo all'averti vista. Di tutte le volte che hai fatto tardi e sono stato felice lo stesso. Di tutte le volte che ho stretto al mio, il tuo corpo scostante. Di tutte le volte che non ho saputo ingoiarti intera e chiudere la faccenda scabrosa dei corpi di notte. Di tutte le volte che ho lasciato mettessi l'amore nel palmo della mia mano sinistra. Di tutte le volte che ho chiamato con voce tremula ed hai risposto col sorriso impertinente del tuo essere sciocca, e giovane, e incomprensibile. E' possibile non abbia capito fino in fondo che ormai era troppo tardi per uscire da te. Eppure io so dimenticare con estrema facilità, ma con maggiore franchezza so pure dire una bugia. E' che quando sei venuta a prendermi, vedi, non ero pronto, ma al colore inusitato dei tuoi occhi, i miei non hanno saputo chiedere di aspettare ancora un poco. Allora sono venuto via, ed ho creduto possibile potermi fermare con te per sempre. La distanza ha fatto il resto. La distanza ha reso possibile ogni fuga, ogni passo veloce. Ancora oggi, adesso, sento aprirsi alla bocca l'odore acre della legna d'inverno. Ancora adesso vedo l'alito farsi vapore nel tragitto tra la stazione e le tue braccia. Ancora adesso oppongo i corpi alla luce del sole del primo pomeriggio, nella città che a lungo è stata solo la nostra. Ancora adesso penso che tutto possa restare immobile, bellissimo, paziente, ad aspettare che io provi finalmente a guarire da me. Ma tu no, non preoccupartene, questa volta ho voluto fare le cose per bene e, nel desiderio di non guarire davvero, ho deciso almeno di liberarti.



martedì 24 aprile 2012

Andata e risorgo.


Allora lei, come venuta da una serie interminabile di pagine ricche di dettagli, spinse il palmo della mano destra sulla faccia rabbuiata di lui. Insieme, seppero che non ci sarebbe più stato un momento esattamente identico ai precedenti. Mai più. Migliore, forse. Peggiore, con molta probabilità. Ma erano finiti per sempre i giochi a rincorrersi. Quelli a trovarsi. E infine le partite lunghissime a quel divertimento sublime che si erano saputi inventare dal niente delle domeniche pomeriggio d'inverno. Perché loro amavano esasperarsi nella fatica del comporre parole a caso, avendo cura che calzassero alla perfezione su quelle degli sconosciuti. Così avevano preso a stupirsi vicendevolmente ogni volta che potevano. Così provavano a distrarsi dalle distrazioni. In quel modo tentavano di rassettare i ricordi. Perché se i ricordi li metti in ordine, è possibile che tu riesca pure a non vederli, disseminati con cura sul mobilio. E della polvere, di quella ci si può pure dimenticare. La polvere, in effetti, è l'amica più paziente la cui mano possa posarsi sulla tua spalla, mentre cerchi di cavartela sottraendoti al tempo. Ma il tempo pure non perdona, e la polvere impastata al peso degli anni, quella diventa irrespirabile eppure necessaria. E ne respiriamo, e necessariamente sappiamo soccomberne. E non seppe fare altro, il meschino, altro che non fosse muovere la faccia alla carezza triste della mano che tanto a lungo aveva saputo immaginare alla luce fioca degli alberghi. Perché, è vero, aveva preso a viaggiare ogni volta che poteva, e a soggiornare, lui solo, nella più piccola delle stanze d'albergo che gli riuscisse di trovare nelle città sconosciute che, di volta in volta, l'accoglievano a braccia serrate. Perché, pure questo è vero, una città con le braccia aperte, lui non l'aveva mai vista. Che le città, piccole o sterminate che siano, le città non sanno mai davvero tollerare l'abbigliamento eccentrico degli stranieri, né il loro passo insicuro, tanto meno la loro stupida curiosità da avventore dell'ultima ora. E quanto sapeva odorare di buono, quella mano. Quella mano terribile che gli aveva sempre ravvivato le ferite del giorno e allentato le maglie strettissime della notte. E davvero non pensò ci sarebbe stato mai altro in grado di ospitare tanto perfettamente la forma dei suoi zigomi asciutti. E ricordandosi di quando partirono alla volta della seconda capitale, ricordandosi di quando viaggiarono per scendere a guardare la gigantesca gabbia di metallo, col naso alto ad annusare il colore lattiginoso dell'espettorazione dei motori. Con le orecchie tese a toccare il ringhiare nervoso delle vetture e la gente che metteva piede al nord, con in bocca sempre troppe cose da dire. Ricordandosi splendidamente il viaggio per il gusto del viaggiare insieme, e le chiacchiere che si erano tenuti in corpo per mesi, e tutte quelle che si erano rovesciate addosso mentre la carrozza poteva pure essere il mare aperto e sotto ai piedi quattro assi di legno tenute da uno spago. Ricordandosi tutte queste sciocchezze, lei gli fece spazio sul ventre teso e, in piedi, strinse forte a sé la testa di lui, sul posto dove si era svegliato in tutte le uniche mattine felici della sua vita. E seppero stare stretti a quel modo, lui insensibile al dolore, piegato sulle ginocchia, e lei irta a guardare già oltre ogni cosa bella fossero riusciti a strapparsi di dosso in quella breve ed interminabile conoscenza. Non un'altra parola, né un singhiozzo inutile, soltanto tutta la forza che in corpo era loro rimasta dopo un simile reciproco abbattersi l'uno sull'altra. E pari allo schianto, simile alla corsa oltre il fiato, uguale al volo dalle grandi altezze, quel momento brevissimo seppe durare quasi infinito. E altrettanto terribile, la paura vibrante del momento successivo. E di quelli a venire. Ma il biglietto del treno costava troppo per quel che valeva la corsa. E neanche più il gusto di poterlo obliterare alla vecchia maniera. E nessuna stazione aveva ancora quel sapore antico che toglie dalla bocca quello amaro del viaggio che finisce troppo presto. E nemmeno avrebbero avuto modo di rimanere attenti alle parole ciascuno dell'altra, che troppo rumore rovina i pensieri e la fame rende nervosi. E allora, per paura di avere paura, decisero di salire a bordo alla vita successiva. E per fortuna, niente di tanto bello era mai ancora accaduto e tutto si poteva di nuovo immaginare uguale. Desiderare forte. Perdere stupidamente. 







domenica 11 marzo 2012

Parole al ventre.


                               

Non confondere quel che la vita ti ha consigliato, con quel che è più giusto per te. Non prendere decisioni affrettate, se puoi prenderne di insensate. Non cavalcare l'onda, perché nessuna maledettissima onda sarà mai altro che acqua e solo Gesù Cristo pare sappia camminarci sopra. Metti in tasca ogni cosa pensi possa servire in un momento ipotetico, prima o poi, vedrai, servirà a qualcuno. Ma non a te. Decidi fin da subito tutto quel che non vuoi decidere mai. Condividi sempre tutto col prossimo, ma diffida del precedente. Porta sempre un muro dietro alle spalle, ti tornerà utile quando non avrai voglia di scappare. Mettiti in pari col lavoro, lascialo. Non farti spaventare dal freddo, se dovrai abbandonare il mondo per un motivo, potrebbe essere quello più nobile. Tocca sempre quello che hai pensato bello al primo sguardo. E se ti riesce, bacialo. E non indurre mai nessuno a fare i tuoi stessi errori, potresti limitare un genio senza saperlo. Nulla di quello che hai imparato è davvero fondamentale, ma fingi comunque che lo sia, non se ne accorgerà nessuno. Non osare prenderti sul serio, neanche per un minuto, le notti sanno sempre capire quando possono attaccarti. Prova sempre tutto, prima di consigliare agli altri di evitare di farlo. Esci spesso e prova a tenere libero e in ordine lo spazio tra le orecchie. Gioca quando gli altri fanno sul serio e sii serio quando gli altri stanno tentando di capire se ti stai divertendo. Mettiti alla finestra e osserva i passanti, vedrai che alzeranno la testa, le persone sanno sempre quando qualcuno le attraversa. Non dare agli odori la possibilità di diventare ricordi, o saranno quelli della specie peggiore. Fingi ogni tanto di avere la forza di fermarti a riflettere. Non tendere la mano a chi non è ancora caduto. Non spingere al suolo nessuno solo per potergli tendere la mano. Divertiti spesso, ma molto più spesso abbozza il sorriso idiota di chi si è divertito. Usa sempre la cannuccia, anche per bere l'acqua. Non chiederti perché, ma questo susciterà interesse. La gente prova interesse per nulla. Cerca di non crepare prima dei cinquanta, nel frattempo può essere pure che ti capiti qualcosa di bello. Ma non farne un cruccio se poi non accade. Cambia il tragitto del ritorno a casa, così, per il gusto di chiederti se te ne pentirai. E non temere, solitamente non succede un bel niente. E mettici vita dentro alle cose che dici, e quando parli a qualcuno, impara a desiderare di esserne desiderato. Ricorda, non ci sono regole davvero inutili, solo infrazioni scontate. Ed evita, ti prego, di dire a qualcuno che un giorno capirà, neanche Dio è rimasto quaggiù tanto a lungo da poterlo dire a noi poveri stronzi. Metti il pilota automatico e lascia la cabina, i passeggeri hanno bisogno di esser portati molto più lontano di quanto sappia fare un aereo. Tergi sempre il sudore con il dorso della mano, oppure poi non lamentarti se una pacca sulla spalla genera terrore. Non fermarti troppo spesso a riprendere fiato, non migliorerà l'opinione terribile che ti sei fatto degli spostamenti inutili. Non lavorare per obbiettivi e digli di andare a farsi fottere a quelli che parlano come un maledetto libro di economia. Non pensare al male che può fare una delle tue bugie, ma piuttosto bada di non perdere tempo in inutili sincerità. E spingi sempre le pareti delle stanze il cui spazio non riesci a tollerare, forse non le sposterai, ma loro impareranno a rispettarti. Decidi quando è il momento di smettere con la paura fottuta di una fame che neanche conosci davvero. Prendi in seria considerazione ciascuna delle possibilità che hai scartato fino ad oggi, sai bene che le hai solo rimandate. Inventati le risposte, ma solo dopo aver evitato le domande. Grida più forte di quanto sappiano fare le necessità, loro faranno lo stesso, ma tu, per l'amor del cielo, non smettere. Trova dei motivi qualunque, anche roba usata, mettili uno sull'altro e fanne trincea. Non chiederti quando potrai recuperare il sonno di cui avresti bisogno, non mentirti pensando che devi prenderti cura di te. Nessuno saprà amarti davvero, ricorda, senza chiederti in cambio un poco delle tue attenzioni. Pensaci prima di cedere. Niente di quello che hai fatto finora ti basta, lo so, ed è forse il momento di ammettere che non hai fatto assolutamente niente che conti. Accompagnati sempre a chi conosce la strada, soltanto così potrai fregartene della direzione e concentrarti sui passi. E non dire agli altri che passerà presto, perché sai che non è così. Forse passerà, ma soltanto col tempo che ci vuole. Impara a concederti alle persone che non hanno chiesto di te. Insegna a chiedere alle persone che ti si sono concesse. Continua a fare le cose che ti vengono naturali, esattamente come il respiro, non ti danno pane, lo so, ma la fame ha un significato profondo. Non meravigliarti se la gente ti chiede il motivo delle cose che fai, spiegarle è parte del tuo mestiere e presto lo capirai. E quando scrivi o racconti parole che non hai fatto neanche in tempo a pensare, fallo con forza, come se già sapessi cosa significano. E non strapparti i capelli al pensiero che forse non vivrai abbastanza per sapere se nell'Universo esistono davvero gli alieni. Fermati ogni tanto a guardare gli altri compiere i gesti quotidiani che anche tu compi da una vita e non sai quando smetterai. Guarda bene lo spettacolo e cerca di esserlo anche tu, una volta ogni tanto. Da' sempre buoni consigli e dimostra che sono applicabili, smetti con la teoria e una buona volta, comincia con la pratica. Sforzati di bere Martini senza prima togliere l'oliva. Non chiedere da che parte sia il bagno, ma vai sicuro dove pensi che sia e se non lo troverai, falla dove ti capita. Non avere paura di finire il tempo a tua disposizione, ne guadagnerai fingendo che a te ne sia destinato in eterno. Non prendere sul serio le preghiere di uno sconosciuto.





lunedì 13 febbraio 2012

Penitansia.


Insegnami a tollerarmi. Insegnami a fare a meno di me. Insegnami a capire le cose difficili che richiedono tutta l'attenzione della mente. Insegnami a non rispondere alle urla della necessità. Insegnami a non sprecare, scrivendole inutilmente, neanche un minuto delle cose che si possono vivere. Insegnami a non fare del male con l'ingenuità vera di chi non capisce la potenza delle parole. Insegnami a non avere paura delle paure degli altri. Insegnami a non ripetere quel che adoro sentirmi dire. Insegnami a non metterci tutta la forza che ho. Insegnami a calcolare il resto che mi spetta dopo che ho pagato il mio debito. Insegnami a non consumare le dita sopra le lettere, con le dita soltano potrò ancora tentare la fuga, scavando. Insegnami a non guardare in basso a destra, dove i minuti scorrono e non sono mai abbastanza. Insegnami ad essere cattivo fino in fondo. Persino con te. Insegnami a sottrarmi alle lezioni. Insegnami a non sembrare un fottutissimo calcolatore elettronico, afflitto da un problema di corto sentimentale. Insegnami a non scatenare la mia ira contro le cose inanimate. Insegnami a bramare il profumo dei libri che non apro più da un pezzo. Insegnami a mettere ordine dentro a quel che vorrei fare, per far vita del disordine. Insegnami a non lagnarmi come l'ultimo dei bimbi che, uscendo da scuola, non trova nessuno dall'altra parte della strada. Insegnami a smettere di far finta che le cose possano bastare così come sono. Insegnami a non aggiungere contorni personali alla bellezza oggettiva che incontro per strada. Insegnami ad ignorare il palmo delle mani che può riempire lo spazio del mio. Insegnami a non ritrovare il controllo delle azioni. Insegnami a ridere delle conseguenze peggiori. Insegnami a usare i muscoli del volto, che di mordere il vuoto sono stanco. Insegnami a fare la scelta peggiore, quella che sa dare sollievo immediato e consumare per il resto del tempo. Insegnami a ficcarmi in corpo tutte le cose sbagliate che non hanno saputo evitare la tua spalla lungo il cammino. E ancora, insegnami a trovare la posizione migliore per interrompere l'intenso sguardo che hai saputo dare a chi non ha mai avuto la mia forma. Insegnami a mordere le labbra, con la stessa potenza che avrebbero se nessuno ci mettesse sopra una mano, per dire che si, si può pure star zitti. Per una volta. Insegnami a capire come si possono mettere di nuovo in ordine le sensazioni e sedare le ansie inutili che hanno preso a vivere la vita al posto mio. Insegnami a dismettere l'uso della parola io. Insegnami a prendermi a schiaffi solo per dimostrare facilmente quanto sapore possa avere al palato l'essere umani. Insegnami a mangiare, di nuovo, un boccone per volta, tutto quello che una volta mi pare di avere assaggiato. Insegnami a vincere il peso delle distanze. Le ruote che non sanno correre abbastanza. L'odore che non vuol saperne di tenermi stretta la gola. Le schermaglie. I silenzi sempre uguali delle prime moine. L'enfasi. L'apatia. Le orbite bianche dell'immaginazione violenta. Tutto quel che non è mai stato. Insegnamelo. In fretta. Io impazzirò. E sarà colpa mia.



domenica 5 febbraio 2012

L'appuntamentre.


Ad averci la forza di rileggerle, queste parole sapranno presto liberarsi del peso egoista che la neve sa piantare dentro alle cose. A saperle interpretare, queste parole potranno superare le ristrettezze di una sola spiegazione. A sapersi giocare bene tutte le carte, potrebbe darsi che le maniche finiscano prima o poi senza l'ombra di un asso. E allora andiamo con il ricordo del futuro a quell'appuntamento che non abbiamo mai saputo darci. Ricordi che ti dissi di non portare con te niente che potesse farmi del male? E tu invece porterai gli occhi e tutto il resto delle cose che si sono accumulate col tempo sopra al viso, creando quell'irrespirabile insieme che toglie il sonno. Ricordi che ti chiesi di essere puntuale? E so già che aspetterò con le gambe ficcate nella pioggia e il sorriso ebete di chi s'immagina come sarà vederti sorridere. Ricordi che implorai affinché potessimo farlo il più presto possibile? Cambierai discorso e, tenendo la mano sul microfono dell'apparecchio, riderai con un'amica qualsiasi del giovanotto che passa sotto alla finestra. Ricordi che per un attimo provammo a tenerci la mano? E il petto non sarà grande abbastanza per superare il contatto tra le dita e i sobbalzi del cuore. Ricordi che scrivemmo tutte le parole di cui non avremmo mai abusato? In cima alla lista metteremo i nostri nomi. Ricordi, infine, che anche la nostra gioia sconosciuta ci fece lagnare delle sofferenze dei più deboli e del mondo che, intorno, andava a rotoli? Impareremo, fingendo di non aver capito il numero civico, che pure del desiderio di possedersi è fatta l'unica serenità che davvero ci si può procurare. E quante cose non abbiamo avuto il tempo di fare, tu nemmeno riuscirai a immaginare. Quante soluzioni che hanno risolto l'ansia del volersi prendere a schiaffi noi non sapremo trovare. E nessuna condizione atmosferica avversa ha saputo mettersi di mezzo, ed appoggiare l'uno le mani sulla faccia dell'altra, sarà l'ultima cosa che faremo, la più bella. Tra l'appuntamento che non ti ho mai chiesto e la mancanza che sentirò, passa comodamente un inverno.



domenica 22 gennaio 2012

Prometti per il futuro.


Capita spesso che un tipo scuro in volto, poco dopo le sette del mattino, con ancora sul viso la forma della brevissima notte appena trascorsa tra speranze lavate di fresco e con ammorbidente di scarsa qualità, si ritrovi col sedere sul sedile di un'automobile fredda. Capita spesso che, a dispetto dell'umore terribile che si porta ficcato in corpo, abbia le mani ancora calde di quel che hanno partorito la sera precedente, e che queste finiscano bruscamente di poltrire in fondo alle braccia, non appena cingono con rabbia il volante che le condurrà lontano dagli occhi di chi non sa fare altro che aspettare quel che hanno da dire. Capita spesso che questo essere umano dal carattere scostante, qualcuno malato di amore per il prossimo direbbe particolare, si ponga ancora dubbi sulla lunghezza dei periodi. Capita spesso che non sappia giudicare quando è il momento di metterci dentro una virgola, una pausa grammaticale che permetta a chi legge di tirare il fiato e non porsi troppe domande. E che non trovi altro motivo che mettersi le sconfitte in gola per andare avanti. E indietro, anche. Capita spesso che un ragazzone con un amore spropositato per il sonno che non dorme, con l'aria disfatta di chi ha immaginato di piangere tutta la notte, ancora nei pressi delle sette del mattino, viaggi da solo a ottanta chilometri orari, in quinta marcia, a duemilacinquecento giri. Capita che viaggi pianissimo nella speranza che non sia vera la strada che sta percorrendo, nell'illusione che non accadrà mai il momento nel quale dovrà mettere la scarpa pesante sopra l'asfalto gelido di una città inospitale, e lungo quel quotidiano terrore perdere tutta la serenità che ha sempre sognato di possedere un giorno. Capita spesso che trattenga il respiro, questo silenzioso e disinibito sconosciuto senza nome. Capita praticamente sempre che osservi le auto viaggiare in senso opposto e che rifletta su come, sin da bambino, abbia sempre desiderato viaggiare esattamente nel senso opposto a quello che lo stava portando nel buco infido in cui adesso è costretto a sgranchire le gambe a giorni alterni. Capita che non sempre le metafore sappiano essere immortali. Capita che non tutte le parole meritino di essere lasciate a chi ha prenotato per la partenza successiva a quella che tu stai consumando da un pezzo. Capita sempre al momento sbagliato che un'occasione saluti con la mano, oltre il finestrino chiuso di una berlina luccicante, e gigantesca, e troppo veloce per essere recuperata, seppure rischiando una pericolosissima inversione a u. Capita spesso che settantacinque chili di chiacchiere instancabili, avvolte in un cappotto comprato d'estate, a duemila chilometri dal luogo in cui oggi consuma le maniche all'altezza dei gomiti, sappiano puntellare la propria ridicola esistenza soltanto alla musica che incontrano per caso. Capita che la musica sappia fingere di sbatterti addosso per caso ai crocicchi della vita, come se in vero non avesse fatto il giro del palazzo correndo a perdifiato, proprio per prenderti allo stomaco. Capita che puoi far credere a te e agli altri che te ne sei liberato, ma la musica torna sempre a prenderti. Torna sempre a riprendersi l'attenzione che le spetta. Capita che mentre sei intento ad agitare le braccia e le gambe, nel faticosissimo tentativo di non affondare dentro alla mancanza di contatto con la realtà, capita pure che sei stanco e non hai voglia di muovere neanche l'unico muscolo del viso che basterebbe a regalare al prossimo la tua ultima smorfia di dolore. Capita spesso che un'ombra il cui collo indossa una lunga sciarpa blu, proprio sopra alle spalle strette contro il vento della regolarità che ormai non tollera più, si ostini a stendersi sopra l'ozio di un coraggio esploso a metà. E le ombre non sono mai di buonumore. Le ombre non amano la compagnia, se non quella di una persona per volta. Le ombre sanno essere fedeli ma terribilmente possessive. Capita spesso che un tipo scuro in volto non sappia dove scappare. Capita spesso che suonino le sei e trenta proprio mentre queste considerazioni si danno battaglia, e nessuna maledettissima parola sia riuscita a cambiare le cose. E capita che le cose vadano sempre dove dicono loro.