lunedì 29 novembre 2010

Le preghiere della buona sorte.



A notte fonda. Fatevi una domanda, poi prendete tempo. Iniziate a sudare. Schiaritevi un paio di volte la voce. Con l'indice ed il medio della mano destra, allargate il collo della camicia. Sciogliete, sconfitti, una cravatta che avrete preventivamente indossato per l'occasione. Scegliete la cravatta tra mille, in perfetto disordine. Scegliete l'unica orrenda cravatta a righe che avete. Aprite in fretta l'armadio, ogni volta stupiti come la prima. Fatevi travolgere dall'acre odore delle giornate passate da tempo, tutte quelle vissute dentro agli abiti che avete riposto troppo in fretta. Eccolo, il vostro odore del passato, ammassato tra quattro pareti di legno, invecchiato persino. Scegliete una cravatta, a righe perchè l'occasione lo richiede. Non è un appuntamento romantico, né una riunione di lavoro, ci vuole qualcosa di serio ma brutto al contempo, qualcosa che non distragga lo sguardo, qualcosa che non stemperi la tensione. Selezionate accuratamente l'armadio tra i cento che offre il negozio. Quello enorme, che ci sta dentro l'intero anno, le quattro stagioni, le vacanze estive e quelle invernali. Quell'armadio con pochi specchi ma tanto spazio. Pesante e ben fatto. Quello che durerà a lungo, resistendo persino al furore dei bambini. Grande che ci stiano le valigie vuote, i maglioni fuori moda ma ancora troppo nuovi per andare in beneficenza. Enorme, per contenere un paio di scheletri e qualche amante. Non un vialetto qualunque. Meglio perderci del tempo ma esser sicuri. Comprate la casa nella nuova zona residenziale, forse c'è da attendere qualche mese, sarà nuova però. Tre bagni che sembrano esagerati ma se c'è l'ospite poi la vedi la comodità. Coltivate molte amicizie nel frattempo, ma nulla di impegnativo, non vorrete che passino settimane in casa vostra, quando saranno mollati dal consorte alle tre del mattino? Se aveste il quarto bagno forse...Tre sono pochi. I bambini hanno bisogno di spazio. Non fa bene rompere le loro abitudini quando stanno crescendo. I bambini sono così delicati. Meglio se il riscaldamento è autonomo, niente rotture, caldo e freddo quando avete voglia. Si, una villetta con giardino. Nella vetrina del negozio c'è un cucciolo con una macchia nera sulla testa, vi guarda fiducioso, mostrandosi allegro e forte, occhi dolcissimi, un furetto a cui non si può resistere. Un collie andrà benissimo, sai che invidia i vicini di casa? Costa, si sa, pedigree e tutto, è una spesa necessaria però. Il tenore di vita, l'auto nuova, gli innaffiatoi automatici che vi bagnano il pigiama, la prima volta che uscite a buttare via la spazzatura. C'è da farci l'abitudine. Il letto era grande quando è arrivato tra le braccia forzute dei facchini. Ora, soltanto pochi centimetri a testa, una vera tortura. Lo spazio necessario sul bordo, mentre passate male la notte, con la faccia fissa al muro. Come quando l'intonaco gonfio di una parete attaccata dall'umidità vi chiama, non potete evitarlo, è più forte di tutto, persino della ragione. Non è casa vostra. Eppure le dita piombano sul gonfiore della parete, premono fino a farla esplodere. Tutto alla lunga si sgretola. Non c'è intonaco che tenga. Già la mattina delle nozze, non era emozione quella che spingeva le ginocchia al suolo, in un faccia a faccia violento con il vaso del gabinetto. Paura. Ecco tutto. Paura. Non chiederle di uscire, lascia che te lo chieda lei. Non è da cavaliere ma alla lunga paga sempre. Visto? Caduta come una castagna nelle domeniche al bosco, col babbo. La donna dei sogni sembrava inarrivabile. La più bella tra le altre. Primi anche stavolta, mentre il resto del popolo sbava. A nulla vale la forza del ricordo quando la riscopriamo al mattino. Non può essere e invece è così. In auto, come i più lerci adolescenti di borgata. Mamma e papà avrebbero potuto scegliere un appartamentino in stile moderno, una camera d'albergo magari, un quattro stelle, che ne so. In auto no. Invece il concepimento non ammette scelta, spesso è solo passione. La possibilità di scegliere termina qui. Nessuno ricorda un bel niente di quello che accade prima. Nessun modulo. Nessuna richiesta. A diecimila metri, ancorati alla poltroncina, lo zainetto col paracadute attaccato alla schiena non presagisce nulla di buono. A un tratto un tizio con barba e baffi vi afferra per il bavero e dritti di sotto. L'unico momento nel quale varrebbe la pena di esercitare il diritto di scegliere, l'unico nel quale potersi ancora salvare, è anche il primo in cui non si sceglie. La scelta non è umana, non è cosciente, né concreta. La camicia ha cambiato colore sino a dove si stringe nella cintola che tiene i pantaloni. Sudore. A notte fonda. Fatevi una domanda e non rispondete. Il silenzio, alla lunga, paga. Non era un rumore strano quello. Non c'è una pistola nell'ultima scatola in cima, nascosta nella stanza degli attrezzi. Eliminare la paura all'origine, non il brutto ceffo che attenta alla vostra sicurezza notturna, non è la migliore delle soluzioni. Troppo tardi. Buona notte.

domenica 28 novembre 2010

Il calice della salvezza.


Questi momenti splendidi, durano quanto le bolle in cui si trasforma l'acqua mentre la torturiamo a cento gradi centigradi. Appena spenta la fiamma, esse cessano d'esistere e ci pare che i lunghi minuti d'attesa siano andati inutilmente perduti. Mentre la pentola smette di pronunciare le sommesse parole tipiche del proprio mestiere, perdiamo quella vaga sensazione di festa che la cucina dona ogni volta che le si rende omaggio. Come l'appetito estremo che sopraggiunge alla metà del giorno, quando da ore si è divorata la fredda colazione del mattino solitario. Ad ogni saporito boccone va scemando l'effetto endorfico della masticazione gustosa. Tutto termina sempre nella caduta della percezione. Troppo in fretta o più raramente con eccessiva lentezza. Così il vino. A mezzo bicchiere di rosso dal tracollo assoluto e funesto della sobrietà, si ha quasi l'impudente sensazione di tenere tra l'indice ed il pollice della mano destra la felicità.

sabato 27 novembre 2010

Delitto e fastidio.

Non senza fatica, scrisse quelle poche parole sul pianoforte chiuso. Nella polvere insistente, con l’indice incerto. Lasciò quello che gli sembrava un epitaffio solenne e perfetto, un grido ideale per una partenza simile. Accostò le tende. Spense i fan coils ai lati della stanza. Le pompe che macinavano aria finta e fresca, cessarono di lamentarsi con la loro consueta pesantezza. Qualche scricchiolio di compiacimento. La casa tirava forse un sospiro di sollievo. Le pareti già assaporavano un silenzio mancato per troppo tempo. Le lampade sparse sul mobilio, già gustavano crepuscoli naturali. Una pausa meritata dopo tanto lavoro. Per mesi la corrente elettrica aveva dovuto scorrere nei cavi fino al mattino. Urla, luce, colpi, lacrime. Già qualche piccola goccia di sudore gli sfociava sordida dalle tempie, agguantandolo lungo il collo, per cadere gelida sulla nuca, dopo aver abbandonato i capelli profumati. Non era il mestiere. Non era la fatica. Non era il sonno. Non erano le rughe del sorriso, arrivate troppo presto. Non era la responsabilità pesante sulle spalle esili. Non era l’amarezza delle rinunce. Non era il desiderio tardivo delle parole romantiche. Non era il vuoto nei momenti importanti. Neanche la fame. Non era il pensiero delle labbra di lei, impegnate in conversazioni senza parole. Non era nemmeno la sagoma scura e sempre incerta degli interlocutori che trovava per caso ogni volta. Non era per il caffè a due nelle bettole della periferia. Non era per le gonne troppo corte. Non per le menzogne. Neanche forse per il tanfo di vite promiscue che si portava dietro dalle balere in cui passava la notte. Era per se stesso, perché non sapeva essere forte abbastanza. Disinibito, scaltro, cinico, violento. Gli mancava tutto. Era un maledettissimo brav’uomo. Giù dalla rupe, come gli spartani deboli ancora in fasce. Una selezione tutt’altro che naturale. Dolorosa eppure piena di pietà per le sofferenze a cui si sottraeva lo sfortunato. Era stato paffuto alla nascita. Dopo la pacca sulle natiche, raccontava sua madre, emise un primo urlo da far paura. Il dottore disse che era un maschio forte e sano. Nessuno si era presa la briga di infilargli in bocca un braccio per cercare quei muscoli che non si vedono. Nessuno sa guardare attraverso. Né possono farlo davvero le mille macchine moderne. Ripassò con il dito le due frasi sul pianoforte. Si pulì la mano sui pantaloni chiari. Tirò forte la porta dietro di sé. Non si preoccupò delle chiavi. Sorrise. Non si preoccupò affatto del gas, delle finestre, di ogni meschina serratura della casa. Salì le scale a piedi, con la scioltezza di un ragazzino. Una sola spallata bastò a buttare giù la porta dell’attico. Il commendatore era via da un pezzo. Il portiere aveva annaffiato le piante a mezzogiorno. Niente allarmi. I gatti lo conoscevano bene, neanche si mossero quando entrò, quasi cadendo, oltre la porta stesa al suolo. Andò in cucina, bevve dell’acqua direttamente dal rubinetto. Si asciugò i lati della bocca con l’avambraccio, senza preoccuparsi della camicia nuova e inamidata. Prese una mela vecchia dal cesto, l’addentò. Sorrise ancora. Stava guarendo. Quel piccolo percorso catartico verso la liberazione gli stava rendendo l’anima indietro, come nuova, pronta per essere restituita al proprietario in cambio di un po’ di pace. Spalancò la finestra. Uscì sulla veranda. Strinse gli occhi per la luce violenta del sole. Un forte respiro. Allargò le braccia, come al mattino, appena sveglio e si lanciò in una corsa breve e potente. In un attimo fu nel vuoto. Stava già osservando il palazzo che mano a mano scompariva alla sua visuale. Il cuore batteva fortissimo. Si ricordava quando da piccolo un amico gli disse che, lanciandosi di sotto, qualcuno era morto già a metà della caduta, soltanto per la paura. Lui no. Lui si godeva la fine. La velocità rese il suo corpo pesantissimo. La gravità gli tendeva le braccia, come sua madre non faceva mai vedendolo tornare da scuola. Impattò contro una tenda estensibile, sfortunatamente aperta per frenare il calore pomeridiano. La tenda si ruppe con un rumore secco. Aveva dolore alla spalla. Nell’urto se l’era forse lussata. I pantaloni di ottimo taglio si allacciarono ad una delle braccia di alluminio che tenevano la tenda sospesa lungo la facciata. Un imprevisto. Con la destra ancora illesa cercò immediatamente di liberarsi per terminare il lavoro. Con la coda dell’occhio prima, con lo sguardo intero poi, guardò di là dai vetri. Era lei. Nuda. Teneva il portiere ancora dentro di sé. Entrambi lo osservavano ammutoliti. Attoniti. Increduli. Intontiti dall’amplesso e dallo spavento assieme. I pantaloni cedettero improvvisamente. Cadde ancora. Lo aveva colpito ancora. Era riuscita a negargli persino la soddisfazione piena di un gesto tanto estremo. La disperazione ebbe modo di attanagliarlo, di accompagnarlo al suolo. Ancora soltanto il tempo di pensare allo sguardo di lei quando avrebbe letto le frasi sul pianoforte. Nella stanza imprudentemente appena visitata, ai piedi del letto, giaceva l’innaffiatoio di plastica verde. Il portiere aveva dato l’acqua alle piante dell’attico a mezzogiorno. Per avere più tempo dopo pranzo. Passarono settimane perché tutto fosse sistemato. Non fu facile. Non fu come se fosse morto di febbre gialla in Amazzonia. Domande, documenti, fastidi. La vedova entrò nell’appartamento per recuperare pochi oggetti. Di sentimenti abbastanza scarni, ella si soffermò accanto al pianoforte. Era completamente ricoperto di polvere, per via di alcune finestre lasciate aperte. Uno strato grigio inquietante. Lei odiava la polvere. Uscì stizzita per non tornarvi più.