lunedì 30 dicembre 2013

Quando il lago ghiaccerà.


Quando il lago sarà ghiacciato ci cammineremo, poiché se mi dirai che non c'è pericolo io ci crederò. Nel cuore della notte ho aperto gli occhi e da qualche parte stavi dormendo profondamente, in attesa che arrivasse il freddo a ghiacciare il lago. E noi ci cammineremo, poiché se mi dirai che c'è pericolo io vorrò correre il rischio.


mercoledì 25 dicembre 2013

E allora tu.


E allora tu, anche se ti ho già mostrato questi suoni, farai finta di noi. E allora tu, che li hai forse già ascoltati in fretta, ti fermerai a leggerne anche le parole. E allora tu, perché nessun altro sa queste cose di me, queste cose che nemmeno chiamo per nome, tu resterai un momento e proverai a capire quello che di buono si nasconde nelle faccende difficili. Ho dormito poco ma ho dormito, poiché dall'altra parte del cuscino dormivi tu.






Invidio il sonno.


Invidio il sonno che può seguirti tutto il giorno, tutti i giorni. Invidio il sonno che può passare la notte con te, tutte le notti. Invidio il sonno che può tenerti abbracciata ogni volta che chiudi gli occhi. Invidio il sonno poiché non puoi rinunciarvi. Invidio il sonno perché può sentirti respirare il fiato pesante della stanchezza. Invidio il sonno che può mettere le labbra sulle tue palpebre senza dover prima viaggiare. Invidio il sonno perché può darti il riposo, renderti al mondo rinata. Invidio il sonno da quando mi hai detto che non sai resistergli.


domenica 24 novembre 2013

Tale padre.


Nelle sue mani ritrovo l'incertezza delle mie, che mancano della rassegnazione di esser schiave della fatica. Nella sua voce riconosco un timbro che a volte cerco ingiustamente di mascherare nella mia. Nel suo sonno usato a guisa di scudo mi par di notare la mia stessa tendenza a fermarmi di fronte al problema, sperando non sia necessario doverlo risolvere. Sopra le sue spalle vedo enormi fardelli stracolmi di responsabilità e privi di desideri futili e non ci riconosco le mie, se non per il peso che si ostinano a portare. Nel suo buonumore sempre più raro è nascosta la mia voglia di ridere e osservare gli altri mentre lo fanno. Nel suo mettersi in dubbio c'è quella paura di non essere in grado, a cui ho tentato in tutti i modi di restare immune. Inutilmente. Nel suo silenzio quando è convinto che io non sappia cosa gli duole dentro e gli rende amaro ingoiare il tempo che non passa abbastanza in fretta, scopro le mie mancanze di figlio e capisco che sono il riflesso delle sue mancanze di padre. Nel desiderio di poterlo abbracciare per tutte le volte che non ha saputo abbracciarmi cresce la rabbia per il suo modo naturale di insegnarmi a essere giusto, senza intuire che non è sempre la soluzione migliore per sopravvivere. Essere giusto come un padre che non conosce il peccato, questo non posso sperare di trovarlo nel mio cammino idiota e ormai a tratti inspiegabile. Ma di tutti gli sforzi necessari a non ripetere gli errori di chi ti ha preceduto, il più inutile è cercare di non somigliare a chi ti ha messo al mondo.


sabato 9 novembre 2013

Un agosto.

Nel silenzio ritrovo tutto il tempo che è passato senza che potessi capire quanto fosse importante affacciarsi e chiedere. Ricordo ancora l'estrema delicatezza del tuo non esserci senza smettere di farmi sapere che passavi ogni tanto a guardarmi. Non dimentico di averti immaginata madre e con un sorriso stanco. Ora so che il tuo sorriso non ha prole, ma che stanco lo è stato spesso. Nel silenzio ritrovo la gioia dell'essere a pochi minuti da te e non riuscire ad imporre al cuore un maledettissimo ritmo regolare, alle mani una temperatura adatta alla fine di agosto, al sorriso uno spazio abbastanza largo per stendersi in tutta la sua inusuale lunghezza. Nel silenzio è l'attesa a cui non voglio fuggire, quella che poi si conclude con la tua voce ed è sempre una sorpresa, come se trovarti una volta fosse un dono talmente meraviglioso da volerne godere ogni giorno. Nel silenzio è il coraggio di venire a cercarti, prenderti, toccarti, sentire il tuo odore e guardarti anche se non vuoi, conservare ricordi da rimettere in bocca quando ne ho bisogno, come l'erba per i ruminanti quando li sorprende la fame. E tutta una serie lunghissima di cose piccole e preziose è il silenzio, quasi una lista come quelle che ti piacciono tanto: le vene sulle tue mani, il tuo polso che sta tutto intero tra il mio indice e il pollice, il tuo braccio sempre pronto a posarsi sul cuscino accanto alla bocca mentre dormi, i tuoi capelli raccolti, i tuoi capelli sciolti, il loro profumo che non subisce la stanchezza di una giornata di corse al sole, la tua bocca che ride di me e si prende tutta la ragionevolezza che ero convinto di non dover cedere a nessuno, il tuo ventre morbido e tirato al contempo, il posto comodissimo tra il tuo orecchio e il collo, dove riposano gli odori alternati che per l'olfatto si son fatti ricordi, i tuoi piedi scalzi, i pantaloni del pigiama aderenti in vita e larghi sopra la caviglia, le cose che dovresti fare ma so benissimo che non farai. Ma il silenzio non dura a lungo e io dimenticherò presto tutto quello che ritroverò a breve. E ogni altra volta che mi sarà concesso. Sto dormendo poco. Mi piacerebbe che mi aiutassi a imparare come si riposa il tempo necessario a rimettersi in sesto. 


martedì 5 novembre 2013

Cose di te che adesso conosco.


Non basta, poiché sembra che niente basterà mai a renderci meno sconosciuti, ma ci sono cose di te che adesso conosco. Il silenzio. Lo sguardo infastidito. L'insofferenza per certe parole, quella per certe cose. Come dormi, quanto dormi, quanto ci metti ad addormentarti. So che ti piace la frutta e quale frutta ti piace. So che bevi il latte e che dentro ci metti lo zucchero. So che ami i dolci. So che ami mangiare e questa è una cosa che mi piace. So che preferisci l'acqua naturale. Conosco il tuo odore. Conosco l'odore che hai al mattino, quello che porti con te fuori dal bagno appena esci dalla doccia, quello che hai a sera, l'odore buonissimo di quando sei stanca, difficilissimo da dimenticare. Conosco le tue paure, i tuoi dubbi, non tutti ma una parte importante di essi. Conosco il tuo passato, non tutto, non profondamente, ma so che non mi è indifferente poiché tengo a te. Non so a cosa serve scriverti queste cose, eppure te le scriverò. So che non t'importa delle sedie fuori posto, di mettere in ordine per forza, subito, ogni volta. E anche questa cosa mi piace. So che non ami ascoltare continuamente la musica. So che a volte scrivi in silenzio. So che ti piace il gelato. So che sei autonoma. E in realtà lo sapevo da un pezzo. Conosco il tuo profilo nella penombra del cinema, illuminato dal film che sei andata a vedere. So come descrivi le cose a chi ti sta accanto. So che cambi spesso idea, ma non quando hai deciso che non vuoi cambiarla. So che sei testarda. So che sai muoverti in una grande città. So che ami muoverti. So che ti muovi, ma non quando sei immersa nel sonno. So che ne vale la pena, ma non so perché, e quindi se davvero ne vale la pena io non lo so. So che ho voglia di dirti cose che probabilmente non ti dirò. So che le mie mani non smetteranno di farsi muovere e che così veloci non si sono mosse mai. So che i tuoi capelli bagnati sono bellissimi e so anche che non la considererai un'opinione oggettiva. So come ti muovi in casa mentre fai cose normali, come riempire un bicchiere d'acqua o mettere velocemente a posto la spesa. So che sei capace di risolvere un problema, ma non ho ancora capito quanti problemi riesci a causare. So che non ti piace farti fotografare. So che non sei fotogenica e che quando leggerai questa frase farai una smorfia. So che andare con te in un museo mi piace molto. So che nemmeno stavolta saliremo insieme sulla grande chiesa che nessuno finirà mai di costruire. So che vuoi mi comporti con naturalezza, ma anche che questa naturalezza sia conforme a certe "regole", me le hai spiegate e le ho capite. So che i tuoi saranno sempre per me colori d'estate. So che non so ancora abbastanza, che forse non voglio sapere troppo, che probabilmente farò il possibile per sapere tutto. So che sei tu, sei qui e che tuo è il nome che ho ripetuto mille volte più di quante abbia mai pronunciato mio.




domenica 27 ottobre 2013

Una lista.


Le cose che vuoi, quelle che ti vogliono, le cose che non esistono, quelle per le quali tu non esisterai mai, le cose al posto giusto e quelle perennemente fuori posto, le cose che salgono inspiegabilmente le pareti scoscese, le cose titubanti, quelle ogni volta indecise, le cose rosse, verdi, viola e lucide, dolci e profumate, le cose che non temono i punti, quelle che non sanno usare altro che virgole, le cose che non finiscono nemmeno se vuoi, quelle che iniziano per sbaglio, le stesse che in molti vorrebbero cominciare e nessuno ha il coraggio di portare a termine, le cose umide, madide, odorose di notti inquiete, tribolate, insalubri, desiderose, immobili eppure al contempo indomabili, le cose che non mi hai detto, quelle che non ti dirò mai, ogni verso, pianto, lamento, silenzio, collera, le cose che andresti avanti a descrivere per ore, giorni, mesi, anni, vite se ce ne fossero molte. Le cose. Quelle che non so bene che forma hanno, le cose che vorrei afferrare con le mani e non farle andare più via. E non so nemmeno perché.


Anche se.


Anche se non so perché, sono contento. Anche se non me lo aspettavo ho avuto paura e ne ho ancora. Anche se credevo di sapere abbastanza, non so praticamente niente. Anche se pensavo il cuore non avrebbe fatto baccano, nel petto c'è un rombo assordante. Anche se ero convinto l'attesa non sarebbe finita mai, eccoti. Anche se i miei dubbi non sono immuni ai tuoi scendo dal treno. Anche se domani non ha contorni precisi quel poco che ho visto di ieri continua a piacermi. Anche se l'aria è l'unica cosa che necessito di respirare io dico che il tuo odore merita un buon secondo posto. Anche se ogni tanto mi sveglio nel panico sono qui e non rinuncerei per niente al mondo. Anche se lungo il viaggio quel panico ha preso posto accanto al mio, non ho voluto rivolgergli la parola: così io resto un poco, lui torna indietro. Anche se rimarrò immobile dietro agli occhi resi fissi dal peso dei tuoi, saprò gioire come un bambino nell'ora dei giochi. Adesso che siamo qui posso scriverti che mi sei mancata in mille modi diversi, ma senza smettere mai. Adesso che basta una smorfia a dire tutto quello che ci passa per la testa, posso inviare. 






domenica 13 ottobre 2013

Due gocce d'acqua.



Ho sempre pensato che tra le assurdità della nostra lingua ci sia quella balla gigantesca sul fatto che due persone si possano somigliare come gocce d'acqua. Due gocce d'acqua possono lasciare insieme la nuvola in cui sono comodamente adagiate durante un temporale, esser lanciate di sotto senza preavviso nello stesso istante. Anche ammettendo che ciascuna di esse riesca per una serie di casualità legate all'orrenda freddezza della fisica a cadere alla stessa identica velocità senza che una folata di vento ne fermi il tragitto verticale per un istante; anche ammettendo che nel viaggio ultimo tra il cielo e la Terra ciascuna delle due gocce che abbiamo preso ad esempio non inciampi in una più piccola, che essendo caduta prima l'abbia fino a quel momento preceduta e non ci si schianti fondendosi in una goccia più grossa e già per questo dissimile dall'altra; anche ammettendo che una volta arrivate a destinazione non le attenda il mare e sia quindi praticamente impossibile accertarne l'uguaglianza; anche supponendo che si verifichino tutte insieme una serie di circostanze che lo studio delle probabilità non potrebbe comunque prevedere, entrambe le gocce si schianteranno al suolo, ciascuna esplodendo in modo diverso, frammentandosi in un numero imprecisato di altre più piccole, dimostrando quindi che, come per gli esseri umani, due gocce d'acqua non potranno mai essere davvero uguali tra loro, poiché vivono e corrono all'unisono, ma cadono sempre in modo diverso. Se ti guardo capisco quanto sia importante soffermarsi sulle cose che annoiano gli altri. Se ti ricordo mi viene in mente che non ho mai saputo cos'è davvero la noia. Mi piacerebbe guardarti scrivere su un pezzo di carta, vorrei che mi guardassi ogni tanto mentre lo faccio.



domenica 6 ottobre 2013

Una carezza è una carezza.


Per te solo metafore nuove. Niente faticosi accostamenti con piante, fiori o bestie. Nessun mediocre quadro con la luna a farti da sfondo. Per te solo pensieri nuovi. Forti. Unici. Vivi. Potenti. Agili. Niente acqua dalla fonte, stelle nel cielo, lava dal vulcano, profondità simili a quelle del mare, nuvole sparute a far da cornice al sole. Per te solo metafore nuove, e solo quando è il caso: poiché una carezza è una carezza e non serve per forza chiamarla con un altro nome.


martedì 1 ottobre 2013

Le cose che volano.


Ci sono cose che volano poiché non saprebbero fare altro. Ci sono cose che volano poiché sono nate per farlo. Ci sono cose che volano poiché smetterebbero mediocremente di esistere in mezzo alla folla che semplicemente cammina. Ci sono cose che volano poiché soltanto all'aria è concesso il lusso di tenerle per mano. Ci sono cose che volano velocissime poiché persino a migliaia di chilometri di distanza io le sento. I palloncini. Gli aquiloni. Gli albatri. I gabbiani. Le buste di plastica. Le foglie. La sabbia. La polvere. La pioggia quando c'è un vento terribile e il cielo è buio e se fossi in casa vorrei appoggiare la faccia ai vetri della finestra e scoprire improvvisamente che non sono solo nella stanza. Gli aerei. E quindi le persone che ci siedono dentro, illudendosi che stiano volando anche loro, invece si stanno solo spostando. Per questo l'uomo non potrà volare mai, egli ha bisogno di spostarsi e non semplicemente di sostare nel cielo. Ci sono cose che volano poiché non saprebbero diversamente come arrivare in tempo. I fogli di carta. Le parole. Le risposte alle parole. Il fumo delle sigarette. Quello degli incendi. La luna, anche se alcuni ottusi sostengono sia sempre ferma nello stesso posto. Le mani quando riescono a toccare chi non potresti raggiungere con meno di sei ore di viaggio. Ci sono cose che volano poiché non sanno ancora della forza di gravità, come nei cartoni animati Wile E. Coyote superato il burrone cammina finché non si ricorda che gli manca la terra sotto ai piedi. Poi giù. Ci sono cose che volano. Altre che fuggono. Molte che restano immobili per paura di inciampare. Qualcuna che inciampa e non ha paura di cadere. Ci sono cose che volano poiché nessuno glielo impedisce. Le canzoni ascoltate col volume altissimo. I capelli che cadono dal cappotto su cui si sono appoggiate per caso durante un abbraccio. Gli odori che si perdono per strada. Le promesse soltanto pensate. I desideri. Le mani. Le mie quando le muovi.


mercoledì 25 settembre 2013

Come un ricordo è quel che ancora deve accadere.


Come un ricordo è quel che ancora deve accadere. E sembra già avere il gusto assoluto di quel che hai tenuto in bocca a lungo, centellinandone a ogni istante il sapore lento, meraviglioso, morbido, enorme e al contempo minuscolo. Proprio come quello di un bacio che non sapevi avresti dato. Proprio come quello di un odore che non osavi immaginare avresti sentito. Ricordato. Desiderato. Cercato. Come un ricordo è quel che ancora deve accadere. Eppure niente che sia davvero importante sembra essere accaduto già. Quella cosa sciocca del chiederti se posso lavarti i capelli — ricordi? — un bisogno delicato che non so bene se sai cosa voglia significare. Sono capace — e questo davvero non puoi saperlo — di ripetere certi movimenti un numero infinito di volte, e così voglio fare tra la schiuma e la tua pelle, con una lentezza simile all'infinito, aspettando che i tuoi occhi, finalmente privi di allerta, si chiudano mentre compio quello che ho sempre pensato come uno dei più delicati gesti d'amore. E già che la parola amore è così rozza e orribile, tutta sporca del sangue la cui intensità dentro al cuore dipende da essa stessa, senza tregua, senza compromessi, allora la bandiremo. La bandiremo come un ricordo che deve ancora accadere. E siccome non dimentico facilmente le cose belle, mi ricordo anche la tua risposta sottovoce, il tuo permesso di poterti mettere le mani sul capo, a patto che una volta asciugati i capelli, fossi io stesso a... Come un ricordo è quel che ancora deve accadere. Come il passato è quel che non sappiamo evitare che accada, sempre presente, sempre attento, sempre sveglio, sempre sorridente di quel ghigno a cui si può essere indifferenti, basta averne voglia in due. Voglio domandare, chiedere, guardare. Voglio annusare, sfiorare, respirare. Voglio parlare, ascoltare, sorridere. Voglio la tua mano nella mia almeno una volta al giorno, un giorno lungo tutti quelli che riesco a tenere stretti tra me e te. Voglio fare qualcosa che mi hai chiesto di fare, chiederti di fare qualcosa per me. Cose stupide come aprire un barattolo o andare a comprarlo al supermercato, o pregarti di correggere una cosa che ho scritto, oppure scriverne una insieme. Come un ricordo è quel che ancora deve accadere. Non uno qualsiasi, ma raramente bello, di quelli che non fanno paura, ché la paura brucia ma non riscalda, sazia ma non nutre, bagna ma non disseta. Il pomeriggio è lungo come ne contenesse altri cento, ma lo supererò sorridendo come i giorni non sono abituati a vedermi fare praticamente da mai. Senza domande, senza se, senza obbiettivi, senza scopi, senza ma, senza forse, senza e se poi, senza ma non so, senza vedremo, senza devo pensarci, senza forse non è il caso, senza sarebbe meglio che, senza orpelli, senza pesi, senza niente che non sia quello che inspiegabilmente vuoi, vogliamo scegliere. Ferma le mie mani. Non le fermare.


martedì 24 settembre 2013

Lettera dal passato recente.



Nemmeno ci credo che ero con te e tu con me e le ore sono passate serene come se ciascuno lasciando per qualche giorno la propria vita lontana fosse tornato a quella più giusta, più piena, più bella, quella che forse gli spettava da tempo. O forse no. E scrivo anche mentre dall'altra parte del telefono voci sconosciute mi dicono cose vuote, vane, inutili, cose che non ricorderò nemmeno per un minuto. Niente è come sentire la tua mano che chiede al mio corpo di avvicinarsi. Niente è come avvicinarsi. Niente è come scriverti sapendo che ti piace quando ti rileggo dentro alle mie parole e la tua bocca si rassegna a una smorfia inevitabile che sembra un sorriso. Una smorfia che è un sorriso. Un sorriso che è il mio sorriso. Vieni. Torna. Aspettami. Arrivo. Parlami di tutte le cose che ti si sono appoggiate addosso durante queste lunghe giornate che sapranno stupirci diventando un giorno soltanto il ricordo di una distanza. Ti penso poiché mi rende felice. E non ho paura di dirtelo.


La maionese impazzisce, ma pazzi dentro a un tramezzino non ne ho ancora mai visti.

C'è sempre bisogno di rumore intorno per capire bene certe cose dette sottovoce. Certe cose sottovoce si confondono meravigliosamente in mezzo a milioni di altre che non vuoi sentire. Acuire l'udito è fondamentale per capire. Per capirsi. Le cose che voglio non sono mai state così poche. Mai così chiare. Ciascuna delle cose che voglio non è mai stata così complessa. Chissà dov'eri quando non osavo alzare lo sguardo per provare a cercare quello meraviglioso che ho poi voluto trovarmi di fronte con tutte le forze. Chissà dov'eri quando non sapevo che forse stavi aspettando che passassi tanto vicino da non poter fare a meno di sentire il tuo odore. Il tuo odore che non si dimentica, che diventa la traccia segreta che seguo senza guardare. Ho un centinaio di domande appoggiate tra il palmo della mano e il petto che pulsa senza che possa oppormi a certi sobbalzi. Ho un migliaio di dubbi stretti tra la spalla e il viso che sorride senza che possa fermare certi ricordi che nemmeno hanno ancora diritto di esistere. Ho due milioni di paure che baciano senza sosta la bocca dello stomaco senza che possa anche solo cercare di interrompere questo loro morboso parlarsi per mezzo del desiderio. Ho due mani e non sapevo che avrei trovato dove riporle. Ho due braccia e non immaginavo potessero servire a stringere senza far male. Ho due occhi e non credevo possibile tenerli aperti per ore sul sonno silenzioso di qualcuno, senza nemmeno bisogno di scomodare di tanto in tanto le palpebre. Durante i pasti ogni tanto mi alzo senza aver finito, illudendomi di potermi concedere di nuovo il premio che mi sono preso una volta, mentre intorno era un caldo infernale, e dentro persino peggio, e di fronte tu che non te lo aspettavi e mi hai guardato con sguardo stranito ma felice, combattivo ma complice. Avvicinati. Anzi no, resta dove sei, mi avvicino io. Tu conosci le poche cose che accadono senza dover fare niente per favorirle. Sono un numero ristrettissimo di cose senza le quali è persino possibile morire. Respirare è una di queste. Avvicinarsi, guardarti negli occhi, appoggiare lentamente le labbra che non smettono mai di parlare alle tue che restano a loro volta immobili come se avessero braccia larghe per dire vieni, è un'altra delle rare faccende a cui non si può porre rimedio, se non provando a concedersi la libertà di fare esattamente quello che sembra naturale da sempre. Nei pensieri lunghi mi piace moltissimo perdermi, illudendomi di poterti portare con me, tenendo la tua mano intrecciata alla mia senza regolarità. Con una mossa veloce ti prendo una parte delle dita e intorno ci chiudo alcune delle mie, ogni volta in modo diverso, ogni volta in maniera fintamente furtiva. Io non chiedo la tua mano. Io prendo la tua mano. Io non chiedo di poterti parlare. Io ti parlo. Io non voglio più tenere impegnate le mani, se non per disegnare il tuo contorno mentre tengo gli occhi chiusi e il respiro tra le nostre facce è uno soltanto, lunghissimo, lento, inesorabile, inevitabile, bellissimo e interminabile. Lo sai quanto dura mediamente un bacio? Io questa cosa non saprei dirla, so solo che ne ho dato uno che non mi ha più permesso di riprendere fiato. Ti accompagno ogni volta che muovi un passo e da te voglio imparare a camminare senza temere di non sapere a memoria il percorso. Ci sono ogni volta che ti giri e forse per un attimo hai dimenticato che qualcuno ti sorride accanto da un piccolo pezzo di strada. Il tuo è il sollievo che una volta affidavo alla notte. Il tuo è il cuore che una volta sentivo battere lontano e non sapevo dove fosse il caso di voltarmi. Il tuo è il destino di cui voglio avere paura. Il tuo è il silenzio che voglio cantare. Il tuo è questo moto ininterrotto che muove le mani. Ti aspetto. Ti aspetto forte. Fortissimo.



venerdì 20 settembre 2013

Quando per oggi avrai camminato abbastanza.



Quando per oggi avrai camminato abbastanza, fermati. Fermati e ascolta. Ascolta e pensa. Non pensare troppo. Non pensare troppo alle cose che non meritano lo sforzo dei tuoi occhi socchiusi. I tuoi occhi che sono venuti da Oriente e guardano sempre più lontano di quello che possono toccare con la punta delle dita. Quando per oggi avrai camminato abbastanza, fermati. Fermati e guarda. Guarda e ricorda. Non ricordare troppo. Non ricordare le cose che sono lontane nel tempo e probabilmente impossibili da raggiungere nel futuro. Il futuro che ti mette tanta paura, quasi che fosse già accaduto e si portasse addosso l'onta di una colpa che nemmeno sa ancora di poter commettere. Quando per oggi avrai camminato abbastanza, fermati. Camminerò per te. Camminerò come ho fatto sempre, senza sapere bene dove andare, ma questa volta capendo perfettamente perché. Tengo stretti tra il viso e la spalla sinistra una bocca, due occhi e un naso che prima della partenza hanno preso lentamente quel che potevano conservare per qualche ora delle successive, mentre momentaneamente mi allontanavo. Camminerò per te. Camminerò come fanno i ricchi di spirito, coloro che hanno trovato la fede in qualcosa, e con essa la fiducia e la forza per camminare senza sapere quando potranno fermarsi. Camminerò come fanno le dita tra i capitoli troppo lunghi, precedendo gli occhi e sbirciando dove finirà il prossimo e comincerà il successivo. Quando per oggi avrai camminato abbastanza, fermati. Togliti gli abiti pesanti, regala all'acqua il contatto con le tempie, stenditi un attimo dove vorrei aspettarti in silenzio, chiudi gli occhi e ascolta. Ascoltami. Parlerò per te. Parlerò come non ho mai fatto prima, segretamente e soltanto per te. E le foglie cadranno e saranno secche e immobili nonostante il vento, e il letto sarà rigido come il pavimento che ha saputo osservare il miracolo del pomeriggio indimenticabile che, insieme alle labbra congiunte di due sconosciuti, ha già trovato comodamente posto tra i ricordi migliori. Parlerò per te e tu ascolterai senza desiderare di fermarmi. Parlerò con te. Parleremo. Muoveremo a ogni istante le labbra come nella più fitta delle discussioni e intanto lo stomaco ci si sarà raccolto in un pugno, stretto e meravigliosamente inestricabile. Un unico pugno per due stomaci ingarbugliati. Finalmente la lingua sarà la nostra lingua, il suono sarà il nostro suono, il silenzio sarà il nostro silenzio, il nostro odore sarà il tuo odore. Quando per oggi avrai camminato abbastanza, fermati. Fermati soltanto per un momento e lascia che riposi anche io. Lascia che guardandoti possa trovare finalmente sollievo allo sforzo continuo e ininterrotto del tenere gli occhi sbarrati per cercare di vederti ovunque, persino oltre l'orizzonte, dove anche le mastodontiche navi commerciali spariscono in fretta. Quando per oggi avrai camminato abbastanza, fermati. Fermati ma non mi fermare, poiché voglio andare con te dove decideremo insieme di arrivare. Quando per oggi avrai camminato abbastanza, fermati. Non aver fretta, riposa e sorridi. Io aspetto, ché è una novità bellissima e non mi dispiace. Io aspetto d'esser chiamato per nome. Aspetto di poter provare quello che non ritieni possibile. Aspetto di poterti rivedere. E intanto ti guardo. Sempre. Che è la parola bellissima che abbiamo scelto per oggi.


sabato 14 settembre 2013

Le mani.


Prima di lamentarmi ogni volta del mio, spendo un pensiero per il mestiere terribile che è stato riservato alle mani. Ci hai mai pensato alle mani? Nemmeno l'uomo tutto intero riesce ad arrivare dove possono spingersi le dita della mano, pigiando velocemente e con forza sopra le lettere inebetite di una tastiera, oppure muovendo vorticosamente la punta di una biro sopra un foglio di carta. Esse si muovono a ogni comando anche solo accennato, non conoscono la pace, debbono passare tutta la vita in guardia, pronte a essere scatenate contro qualcosa o qualcuno. Le mani non sanno mai se nei dieci minuti successivi dovranno essere pugno e abbattersi contro una mascella impertinente, oppure palmo per contenerne un altro, o ancora carezza per porre rimedio a certe mancanze che l'uomo non riesce ad evitare. Le mani non riposano nemmeno quando il resto del corpo dorme, poiché ogni volta che il sonno s'interrompe brevemente debbono occuparsi di cercare qualcuno accanto, e non ti dico la gravità del compito se qualcuno accanto poi non c'è. Ma tu queste cose le sai, ne sono certo, tu che delle mani hai giusta considerazione e alle quali riservi un posto invidiabile lungo i fianchi. Non l'avrei mai detto che un giorno avrei scambiato dieci dita per due occhi, ma adesso che è successo posso confessarti che mi sembra di non aver mai desiderato altro, e che con quegli occhi io possa scrivere persino meglio. Non l'avrei mai detto che un giorno avrei finalmente capito cosa significa un abbraccio in cui vuoi entrare tutto intero per disintegrarti e non uscirne mai più, di quelli che dici un sacco di cose senza dirne nessuna, di quelli che mentre ti concedi il lusso degli occhi chiusi, discuti animatamente con l'odore di chi ti si appoggia al petto. Non l'avrei mai detto che un giorno avrei baciato qualcuno all'ombra di un albero lontano, vicino a una giostra spenta, in una giornata caldissima, lontano da tutto e da tutti, dopo aver giaciuto su un pavimento riservato alle poche foglie bruciate dagli ultimi giorni di luglio. Non l'avrei mai detto che poi fosse così difficile tenere degnamente impegnata la bocca, provare ad arrestarne il fremito mentre ascolta il richiamo di quella dall'altra parte del telefono. Mai avrei detto, lo giuro, che avrei voluto sapere tutto, né che avrei chiesto un giorno a qualcuno di raccontarmi il suo passato. Non ho un elenco delle cose da fare, né uno delle cose di cui avere paura, nemmeno uno delle parole che non mi piacciono, né una lista degli errori grossolani che temo di fare, per evitare i quali finisce sempre che poi non faccio nemmeno la cosa giusta. Non avrei mai pensato di dirlo a qualcuno, ma tu muovi le mie mani.


giovedì 12 settembre 2013

Dove ti ho già vista.


Non mi ricordo bene dove, eppure ti ho già vista. Forse tutte le volte che ho girato a piedi intorno alla città ed era inverno, e il mare non mi sembrava affatto stesse sorridendo, e il freddo mi diceva di tornare indietro a ogni angolo, e io invece abbassavo lo sguardo per sottrarre la bocca al gelo ed ecco, là, dentro ai passi contro il vento, sull'asfalto che non ha mai fatto niente per facilitare il mio cammino, devo averti vista proprio dentro a quei passi veloci eppure incerti. O forse no. Non mi ricordo dove, eppure ti ho già vista. Dev'essere stato quel giorno che mi sono chiesto perché, ed era già ormai un numero immenso di volte che non avevo una risposta certa a una domanda tanto sfacciata. Ho incrociato allora, credendo che fosse per sbaglio o per caso, qualcuna delle tue parole. Sorridendo sono rimasto un momento a rileggerle e pensare che forse non tutto era davvero perduto, poiché qualcuno sapeva prendersi cura dei pensieri messi nero su bianco più o meno come ho sempre amato fare io. Persino meglio. O forse no. Non mi ricordo, eppure ti ho già vista. È probabile sia capitato quando hai accarezzato lievemente uno dei miei pensieri e ho creduto che volessi dirmi qualcosa, poi la corsa, la stupida corsa verso un male peggiore mi ha distratto e allora m'è rimasto solo il dubbio di aver dimenticato di fare qualcosa d'importante, di bello persino. Hai presente quando metti le mani in tasca prima di partire? Si, tu lo sai. Hai presente quando provi a rileggere in mente una lista delle cose da prendere che avresti dovuto scrivere e poi hai preferito fingere di dimenticare, impiegando quel tempo prezioso a guardare il soffitto che ti sorrideva? Ecco, quella lista che prima di essere arrivato in fondo non sai già più cosa c'era in cima. Si, forse ti ho vista in uno di quei momenti in cui ho pensato che portare in viaggio qualcuno è l'unico modo per non doversi preoccupare di aver preso tutto quello che serve davvero. O forse no. Non mi ricordo, eppure ti ho vista. Passavi inquieta tra le povere cose di uno sconosciuto e velocemente alzando lo sguardo ti chiedevi che cosa ci fosse di vero dentro al costume stantio di un simile egocentrico attore. In quell'istante ho probabilmente pensato che ci fossero lunghi momenti, e non so bene perché, in cui tu non sorridessi, prestando piuttosto l'orecchio al futuro per sentire il rumore che ti era riservato, o invece appoggiando la faccia al passato sperando che per una volta non ne venisse baccano. Dev'essere stato allora. Adesso mi sembra di ricordare, ho provato il breve sollievo della calma, delle cose dette in fretta, della pelle su cui parlare muovendo le labbra ed evitando ogni suono. Ho pensato che avrei voluto fermarmi e finalmente riposare e che forse non avrei avuto paura di rimettermi in marcia. O forse no. Non ricordo, eppure ti ho vista. Mi sovviene chiaramente il sorriso sottile e leggero a cui non ho volontariamente posto rimedio dicendo a me stesso — non so davvero bene perché — che quella sconosciuta, in qualche modo sempre presente, doveva serbare da qualche parte un sentimento gigantesco eppure leggero, bianco e accogliente, silenzioso e finalmente sufficiente a lenire certi dolori. Mi ricordo anche di avere invidiato la sua capacità di riflettere prima di scrivere e presumibilmente parlare, forse per via del desiderio che ho sempre avuto di essere meno impulsivo. O forse no. Ricordo, ti ho vista. Ed è stato un momento che ho tenuto a lungo lontano. Per un tempo terribilmente grande, dilatato e pesante come una vecchia coperta che ancora conservo, fatta dalle mani instancabili della mamma di mia madre più di quarant'anni fa con quel che restava dei calzini di lana bucati e ormai impossibili da sistemare di nuovo. Ecco, vedi, questa coperta ha una forma strana che non sapresti mai scegliere qual è il verso giusto, con le maglie larghissime che ci si vede attraverso, eppure pesante da farti sentire amorevolmente schiacciato. È calda, una coperta a maglia larga che ci passa il freddo attraverso ma tu non lo senti. Quelle sono le mani di chi ha cresciuto una carovana di bambini con l'unica forza possibile, quella delle cose faticose e giuste. E la conservo per farne un regalo a ogni inverno. E temo il giorno in cui sarà il ricordo di qualcuno. Ma non temo il freddo, quello non lo temo affatto. O forse no. Ti ricordo. Come si fa con le pochissime cose delle quali hai capito che non è il caso di avere paura.






martedì 10 settembre 2013

Ho camminato tanto.



In tutti questi anni ho camminato molto. Moltissimo. Ho cominciato fermandomi a ogni angolo, sedendomi a riposare, cercando di capire perché stessi muovendo a nuove mete e che forma queste potessero avere, non vedendole neanche lontanamente all'orizzonte. Ho camminato tanto, però. Così il fiato s'è fatto spavaldo, il petto più grande, le costole larghe, il respiro regolare e potente e persino il cammino s'è fatto corsa. In tutti questi anni ho corso molto. Moltissimo. Mi sono fermato regolarmente ma per pochi minuti, quelli necessari a sentire il sudore cadere dalla fronte e prima di arrivare alla bocca assetata, passare sopra gli occhi felici per la fatica, stupiti per quello che in lontananza ancora non si vedeva neanche piccolo così. Allora i muscoli delle gambe hanno preso a muoversi anche durante le notti giuste in cui al sonno non ho saputo resistere. Ed è quella la corsa più bella che il corpo umano possa concedersi, il moto regolare delle gambe stanche, assecondato dagli occhi chiusi e dal sogno. Nel sogno non dubito di esser passato spesso accanto a qualcosa, o qualcuno, di averci girato intorno, di aver teso la mano senza che fosse accettata, di averne sentito l'odore senza poterlo conservare, di aver guardato gli occhi puntati lungamente al suolo, di aver sperato che la gioia di quella sconosciuta alzasse la testa e si lasciasse vedere. Delle corse che ho fatto di notte, ricordo il senso immenso della sconfitta che mi assaliva al mattino, quasi che fossi arrivato ogni volta ultimo. Ho camminato e corso molto. Moltissimo. E sempre facendo attenzione a non urtare chi stesse passando lentamente lungo la strada, sperando che ciascuno, guardandomi negli occhi pieni di desiderio, capisse dove stessi andando così di fretta e mi lasciasse il passo. Ma tu lo sai, le necessità personali prevalgono su ogni altra, così ho imparato a farmi spazio senza toglierlo. Poiché la stanchezza non risparmia nessuno, sono caduto spesso. E siccome non so mai bene come ripartire, non mi sono fermato, nonostante tutto, anche se avrei voluto, anche se forse sarebbe stato meglio, ma poi — ho sempre pensato — meglio per chi? Ci si dimentica spesso e inconsciamente di quello che non si è potuto prendere quella volta che lo si è desiderato. Ma non definitivamente. Ho girato l'angolo. Ho alzato le ginocchia al mento per correre più forte. Ho perso il respiro, il controllo, la concentrazione, la forza. Ho ritrovato il sorriso, la gioia, quando ho incrociato uno sguardo finalmente alto, puntato sul mio, come se finalmente qualcuno avesse deciso di spiegarmi il motivo del viaggio. Facciamo insieme due passi. Due. Intanto mi concedo un piccolo regalo ogni giorno, scendendo da un treno qualsiasi, arrivando in una stazione qualunque, stupendomi ogni volta di fronte a quel che i ricordi sanno restituirmi.




giovedì 5 settembre 2013

Mi capita spesso.


Mi capita spesso quella cosa dell'odore, ma non te la dirò. Sai quella cosa dell'essere apparentemente immerso nelle chiacchiere, in mezzo alla gente che parla, ed è estate finalmente, e almeno per un poco niente di orrendo ti aspetta l'indomani? Ecco, quella roba là. Chiacchiero di cose inutili come se si trattasse di mettere nero su bianco i punti fondamentali della conquista del mondo. Così impegnato a dispensare sciocchezze a voce alta, guardo ovunque, cercando di non abbassare lo sguardo al petto, dove tengo nascosto in un angolo tutto quello per cui vale davvero la pena parlare. O restare una buona volta in silenzio. Mi capita spesso quella cosa dell'odore, ma non te la dirò. Ho la testa immersa nell'acqua, la lingua impastata dal sale, la pelle sferzata dal sole e cammino dove finisce la sabbia e comincia il mare. Poi si ritrae. Poi ricomincia. Poi si ritrae. E ciascuna delle parole che non ho detto fino a quel momento, ciascuna di quelle che ho deciso di provare a tenere segreta, scalpita come se mi volesse regalare un dolorosissimo parto, ma io so bene come ricacciare dentro tutto quello che domani venendo alla luce sarà enormemente più bello. Mi capita spesso quella cosa dell'odore, ma non te la dirò. Inciampo continuamente nelle cose, spesso anche nelle persone, chiedo scusa e vado avanti, quasi come se quello che vedo là in fondo, lontano, sia molto più importante di quanto mi passa accanto in quel momento. Poi mentre sorrido, o guardo l'orologio, o cerco un bar nel quale chiedere dell'acqua, o ascolto chi mi sta parlando, improvvisamente lo sento. Lo sento fortissimo e mi manca il fiato, ed è solo per non dover spiegare qualcosa che forse in parole stavolta proprio non saprei mettere, solo per questo non mi piego in due appoggiando le mani alle cosce e le gambe sulle ginocchia. È questione di un minuto, sorrido spaventato, respiro velocemente perché non finisca troppo presto. Mi capita spesso questa cosa del tuo odore, ma non te la dirò.


martedì 3 settembre 2013

Avevo una mappa.



Avevo una mappa e non lo sapevo. La tenevo aperta sotto al palmo delle mani ogni volta che, mordendomi le labbra, chiedevo urlando al pavimento quale fosse la direzione da tenere. Avevo una mappa e non lo sapevo. Tutte le strade erano segnate, percorse, invisibili, inefficaci. Avevo una mappa e non lo sapevo. Era fatta di attese apparentemente senza motivo, di parole casualmente perfette, di stupore repentino, breve, unico, sensazionale. Avevo una mappa e non lo sapevo, un foglio di carta grande da poter ospitare ginocchia e gomiti e un paio di occhi in contemplazione. Avevo una mappa e non lo sapevo. E quando l'ho guardata davvero, mi ha portato finalmente dove non avrei mai detto di esser diretto, dove non sapevo di voler andare, dove non credevo possibile ritrovare il sorriso. Avevo una mappa e tra me e te un'enorme distesa bianca senza indicazioni. Eppure ti ho trovata.



domenica 1 settembre 2013

Se ci fosse a un certo punto abbastanza silenzio.





Se ci fosse a un certo punto abbastanza silenzio, potrei sentire le tue labbra piegarsi inevitabilmente verso il mento e gli angoli della bocca salire agli occhi: il suono del sorriso potrei sentire. Del tuo. Se ci fosse a un certo punto abbastanza spazio, potrei riposare senza togliertene. Se ci fosse a un certo punto abbastanza luce, potrei smettere di annaspare nel tentativo di ricordare una meraviglia che non ha già più tratti precisi. Ieri pomeriggio, smettendo improvvisamente di pensare a quello che stavo facendo, sono arrivato in stazione che il sole era ancora alto e negli ultimi metri prima che il treno mi spingesse in quel gesto violento e insieme amorevole che è l'arrivo, ho realizzato di aver viaggiato per un motivo preciso e così la mano sulla valigia è diventata improvvisamente fredda. E felice. Sono sceso, prestando l'udito all'immenso rumore ovattato che solo quella precisa stazione sa regalarmi ogni volta. Sul predellino, ancora a metà tra il viaggio e la meta, mi sono ricordato di quanto forte possa battere il cuore, di quanto piccolo possa diventare il torace quando hai bisogno di respirare tutta l'aria del mondo. Sono sceso. Dietro una delle grosse colonne ho visto dei colori familiari, dei capelli sciolti, un sorriso strambo che non sai mai se contiene più stupore di quello che dà. Quando i ricordi sono così vivi è possibile che il presente possa esserlo ancora di più. Poi è squillato il telefono. Comincio a non ricordare tutto quello che mi sarebbe piaciuto ascoltassi e che ti ho già detto. Per fortuna in alcuni casi ascoltare di nuovo non è un delitto.
















domenica 21 luglio 2013

Paura di non averne.


Non so chi sei, non so come sei fatta, che voce hai, come guardi chi ti guarda, qual è il tuo odore, come ti vesti, com'è sentirti in silenzio. Io non so chi sei, come cammini da una parte all'altra della strada, se cerchi le strisce, se aspetti il verde, se piangi spesso, mai, poco o troppo. Io non so chi sei, come rispondi alla voce che ami, se le tue mani diventano fredde, se la tua voce si rompe, se mangi tenendo le gambe incrociate sopra la sedia, se nella pasta ci metti molto sale o troppo poco, e se ti piace al dente o cotta fino a diventare immangiabile. Io non so se sai tenere un segreto. Soprattutto se il segreto sei tu. Io non ti conosco. E un'altra cosa, di te, non so: quanto pesa la tua testa appoggiata alla spalla di uno che te la offre volentieri, e se mentre l’appoggi e sai che non ti vede sorridi o sei pensierosa, o semplicemente chiudi gli occhi e respiri. Io non so chi sei, non ti conosco. Non so se ti piacciono le litanie, se ti accontenti, se vuoi quello che non puoi permetterti, se sai fare regno di un mucchio di parole, o parole vuote di un regno fatto solo di te, se passeggi mentre aspetti qualcuno in stazione o se resti seduta, se incroci le braccia o le lasci cadere lungo i fianchi, se i tacchi ti dolgono, se li togli senza motivo, se li metti perché a qualcuno piacciono, non so, come vedi, proprio niente di te. Io non so chi sei, dove arriva la tua fronte se ti si stringe tra le braccia, se sali sulle punte per cercare gli occhi di chi ti vuol bene, non ti conosco, io, non so chi sei, ma tu questo non lo puoi capire. Non so chi sei, quanto posso tenere alto lo sguardo sotto il tuo senza crollare, se l'acqua la bevi naturale, gassata, fredda, a temperatura ambiente, se alla bottiglia o per forza al bicchiere, se hai tre piccolissimi nei tra la spalla e il braccio e se come una costellazione lontana essi nemmeno si vedono. Non so niente di te, se nelle mattine di festa ami dormire finché non ti sveglia la fame, se i biscotti nel latte ce li lasci fino a farli diventare poltiglia. Non so nemmeno se mangi i biscotti e, pensa, nemmeno se bevi latte. Non so da quale lato del letto preferisci dormire, su quale spalla, se a faccia in giù, nascosta nel cuscino, o tenendo d'occhio il soffitto per la paura che cada, abituata come sei a vedere che ogni cosa non ti resiste. Non so niente di te, se ami l'ordine, se tieni i vestiti piegati, se porti con te una lista della spesa, ma so per uno scherzo del destino che ti piace raccogliere quelle degli altri. Non so se sai fare il nodo alla cravatta, se ti imbarazza cantare in presenza di altri, se apri subito la finestra quando ti alzi, se le tue risate riempiono la casa, quando e perché. Non so se tieni le chiavi sempre nella borsa, se porti l'orologio, se ti piacciono i dolci. Non so un bel niente. Di te. Io non ti conosco. Non so se prendi l’ascensore, per esempio, o se preferisci andare a piedi, se metti lo smalto — e questo lo so, ma lascia lo stesso che ne dubiti — se vai dal parrucchiere tutte le settimane, se al ristorante insisti per pagare la tua parte. Io non so niente di te e non ti conosco, ma se fossi uno sveglio, scaltro, razionale, concreto, furbo, intelligente, votato alla realizzazione personale, alle conquiste, alle soddisfazioni, avrei fatto di tutte le cose che non so, un motivo valido per non scrivere queste parole. Salvo pentirmene dopo un istante.

lunedì 20 maggio 2013

Come te nessuno, m'hai.


Non ho saputo meritare un posto alla tua finestra. Non ho voluto guardarti dalla strada, preferendo farmi guardare mentre mi allontanavo. E quando pensavo mi avresti chiamato a te ancora una volta, non hai più avuto la forza di pronunciare il mio nome. Così adesso cammino. Cammino da molto tempo. E se mi volto, persino la sagoma amata della nostra città provvisoria stenta a farsi riconoscere. Niente rimane dove vorresti. Nessuno, anzi.


domenica 27 gennaio 2013

Trasfusione di lacrime.


Non ti scrivo da giorni.
Se riesco a ricordare bene, potrebbero essere addirittura anni. Tanti quanti quelli che sono passati dal momento in cui siamo stati messi al mondo, lontani l'uno dall'altra, a quello in cui forse c'incontreremo un giorno per caso.
Sono in molti a sapere che dal disagio nasce la bellezza. Molti meno coloro che riescono a tollerarlo. Certo la bellezza non te la puoi abbracciare. A meno che non sia tutta attaccata intorno a un corpo. Il disagio invece, quello ti abbraccia lui. E quell'abbraccio mica te lo scordi. I segni di una morsa tanto stretta li nota persino un vecchio dalla vista ormai appannata se t'incontra in una notte in cui la luna è stanca e la luce poca, troppo il rumore. Capitano di rado, eppure capitano, questi momenti più o meno lunghi durante i quali mi dimentico di quello che mi troverò intorno una volta rinsavito. Una sosta, probabilmente fisiologica, che la mente ogni tanto si prende. Proprio perché uno sfinimento così lungo non può prescindere da una tregua. Sempre che questo sfinimento voglia continuare a sfinire. E quando tutto torna normale, o sarebbe meglio dire quando tutto non torna affatto, quello sfinimento ha sempre l'aria di voler continuare ancora per un pezzo. Io nemmeno ci credo alle cose in cui dico di credere: alle possibilità a portata di mano, alle capacità innate, alla svolta che il giudizio di un certo numero di occhi può dare alla vita di qualcuno, alla necessità di combattere, a quella di provarci, ai viaggi che è meglio tener duro e non far soste, ai mestieri che sono tutti nobili se ci metti modestia e buona volontà, alle cose che prima o poi si sistemano, a quella cazzata che al peggio non c'è mai fine. Una fine c'è eccome, solo che arriva quando dice lei e nel frattempo è dura più del selciato dove hai battuto il mento quando da bambino hai provato a pedalare senza mani. Non credo a niente di quello a cui mi è stato chiesto di annuire mentre sedevo brevemente sui banchi di scuola, dentro alle sacrestie, davanti alla televisione, sulla poltrona di un teatro di quarta categoria. E nemmeno delle mie stesse promesse mi sono davvero mai fidato: dei ce la faremo se è quello che vogliamo, dei passerà perché non può andare sempre tutto storto, dei vedrai che l'estate arriverà presto e dell'inverno non ricorderai neppure un solo brivido, del non ripeterò gli errori che ti hanno fatto soffrire, dei soffro più io credimi ma adesso ho capito dove ho sbagliato e saprò farmi perdonare. Non m'è rimasta neanche la buona volontà per credere in Dio. E in effetti nemmeno quella per credere nel prossimo, ché se uno dovesse giudicare dal precedente avrebbe ben poco da aspettarsi. Non credo più nemmeno in quello che vedo: nell'importanza dei sentimenti, in quella delle delusioni necessarie a farti le ossa, alle ossa che ti aiutano a tenere dritta la schiena, a chi è convinto che ciascuno ha quel che si è saputo meritare, a quelli che sostengono invece che occorre meritarsi persino quello che non si riuscirà mai a possedere, al perdono definitivo, ai sorrisi di circostanza, alle parole melliflue di chi non sa nemmeno come ti chiami, ma lo fai ridere un sacco e domani manco si ricorderà di averti preso del tempo. Ma se di crederci non facessi almeno finta, probabilmente non saprei bene come tenermi in piedi. Io dico che mi piace non avere spalle alle quali appoggiare ogni tanto le braccia. Almeno quanto mi piace poi lamentarmene. E comincio a temere che non sia facile da guarire.
E c'è anche una cosa che farò finta di non sapere, ed è che per fare arrivare una lettera a qualcuno occorre andare ad imbucarla.





sabato 12 gennaio 2013

Lettera d'amaro.


"Una volta eravamo bambini, e né tu né io potevamo saperlo. Perché si è piccoli solo nei ricordi di quando ormai si è grandi. In quelle memorie sempre tanto piene di rammarico e nostalgia, e meraviglia per i sentimenti semplici. Io ti guardavo da lontano e tu da lontano fingevi di non guardarmi. Dev'essere stato allora che abbiamo capito che ci saremmo amati per sempre. Così, senza davvero amarci mai. Tra le invenzioni migliori che la nostra fantasia di fanciulli ha saputo regalare al nostro futuro da adulti c'è la convinzione di potersi bastare persino senza esistere".
L'ho scritta adesso, solo per te. Anche se non so bene che cosa significa. Ci ho messo le virgolette, come fosse un passo di una cosa importante, di quelle che per pubblicarle ti pagano. Ci ho messo le virgolette per darmi un tono.



domenica 6 gennaio 2013

Respirare affatica.


E nemmeno questa volta ho imparato niente. Niente dall'aver sbagliato tutto quello che si poteva sbagliare. Niente dall'aver rinunciato a tutto quello a cui non volevo rinunciare. Niente dall'aver desiderato inutilmente tutte le cose che evidentemente non mi erano destinate. Perché io dico che se una cosa ti spetta, arriva. E non serve fare finta di non vederla arrivare. Se una cosa ti è destinata, allora la devi guardare in faccia e allargando le braccia afferrarla nell'istante in cui ti sta sfiorando col profumo della corsa che ha fatto per arrivare in tempo fino a te. In tempo per cosa, questo non lo so. Ho fatto finta. Perché adoro fare finta. A tutti piace un poco fingere, immaginare, recitare, mentire, vestirsi a festa, non vestirsi affatto, dormire poco, per niente o per due giorni consecutivi senza mai tirar fuori dalle coperte nemmeno una mano, mangiare, digiunare, ostentare il digiuno ma anche l'opulenza, le pietanze, la tavola imbandita, il cibo che resta, quello che si butta, il bicchiere sempre pieno, la bottiglia rovesciata, la tovaglia macchiata. Nemmeno questa volta ho ceduto al dolore dell'aver perso qualcuno, quello che ti fa male come immagini ti farebbe male perdere un braccio, una gamba o che ne so, un occhio. Poi penso che il mondo in effetti sarebbe una noia. Una noia mortale se non ci mettessimo dentro il diversivo idiota dell'essere umani, le risate senza motivo, i motivi senza risate, le gioie che vengono da lontano, le amarezze che ci camminano accanto, i cieli di certe notti che preferiamo attraversare da svegli, il freddo dei ricordi felici, il sudore di quelli che diventano incubi, gli odori delle persone che abbiamo amato con tutta quanta la bocca, le loro parole, quelle che non abbiamo detto, pensato, gridato, sussurrato, scritto, spedito, letto, ricordato. E tutto ricomincia da capo. E nemmeno sapremmo trovare la rabbia che ci vuole per crepare un giorno più tardi, quella che viene dalla tentazione di recuperare il recuperabile, di riprendersi le uniche labbra che hanno saputo tenere ferme le proprie. Non ho ancora capito come si perde, come ci si lascia sconfiggere, come si vince, come si trionfa, a che serve trionfare, dove porta la gloria, che significa davvero la parola felicità. Però una cosa è chiara: niente lo è.