mercoledì 26 gennaio 2011

Messaggio nella poltiglia.



Non hanno forma alcuna queste mie parole raminghe. Non sanno cantare, né parlare, né farsi strada dove c’è buio. Nascono sempre più sporadiche, corrono agli angoli della stanza e siedono sulle ginocchia, con la testa tra le mani. Non hanno forza queste lettere in ordine a formare preghiere insensate. Non sanno imbellettarsi ed apparire sotto le luci fasulle della sera. Restano sempre più spesso dove l’orecchio non le può ascoltare, rasentano i muri, strisciano una fuga meschina, vivono una vita leggera. Non hanno parole queste mie labbra, serrate in uno sformato sorriso, tirate in urlo violento, passite al peso dell’infelicità.

domenica 2 gennaio 2011

Morto circuito.


Provo a non ascoltare. Provo a leggere quello che scrivo mentre lo scrivo. Provo a ricopiare su carta quello che penso. Provo ad ignorare ogni opinione, ogni colore cangiante, ogni sorriso forzato. Provo a tenere il naso fuori dall'acqua. Provo a fingere che l'acqua non sia fango. Provo a provarci ma non abbastanza. Per il vero, non ci provo affatto. Quasi non respiro ed alla paura aggiungo ogni altra sensazione. Con gli occhi immersi nel liquido, con l'udito sommerso, con il cuore che schianta nel petto, con il sangue che lacera la carne, nell'esplosione imminente, cerco i volti che non mi appartengono. Sono in effetti quello che non vorrei, quello che non ho mai voluto essere. Sono in pace e senza fiato.

sabato 1 gennaio 2011

Psicodialisi.


E sono malato. Adoro iniziare il periodo con una congiunzione. Ma non è questa la diagnosi. Sono annientato da una malattia delicatissima, leggera, trasparente, tiepida e confortevole. Per lasciare che intendiate, è come essere avvolti dentro a metri e metri di pellicola per alimenti, la stessa che usavano le vostre madri per conservare il cibo dentro al frigorifero. Stretto da pareti resistenti eppure modellabili. Asfissiato ma non a morte. Sono pesantemente infettato. Inguaribile. Avido di questo malessere, penetrato e deliziosamente travolto, da un dolore letterario. Ho contratto il lavoro in giovanissima età e lo confesso, è questa l'orrenda infezione che squassa l'intestino delle mie giornate. E' questo il morbo profondamente radicato nel silenzio delle ore notturne, sottratte indegnamente al dovere. Così puerilmente sottomesso alle responsabilità, da temerne la punizione, come fossero, queste ultime, entità vive. Nessuna, tra le cure conosciute, potrà ridarmi il sorriso, il volto tremendamente segnato dagli spasmi dell'insofferenza in un'unica espressione priva di gioia. Non è reversibile, questo morbo maledetto e neppure contagioso, affinché possa portarvi tutti con me, per allentare la sofferenza. Si mangia, lentamente, lo stomaco inerme. La piaga che mi possiede, suole di notte sbocconcellarmi il ventre. E non c'è giorno di festa che non produca un chimico senso di colpa, un'attesa spasmodica e crescente del ritorno all'insopportabile tedio dell'operosità. Durante l'anelato e meritato riposo, mi produco in incontrollabili moti di punizione preventiva. Restare immobile, inabile, inattivo, sensibile eppure silenzioso, è l'espressione più malvagia di questo male. E' un'epilessia dei sentimenti, uno sbocco violento ed amaro delle sensazioni, un rigurgito di lacrime, dove la bocca gioca l'appagante ruolo dell'occhio. Non so come uscirne davvero e ve lo confesso. Di virtù, ho fatto mio malgrado necessità e ora pago a carissimo prezzo. In uno spirito debole, le abitudini e le costrizioni trovano facile nido, ove covare insicurezze e paure, timori ed oltraggi. E non sono più io. Non sono più quell'insieme sconsiderato di dubbi e di sogni, quel groviglio di sentimenti e labbra tremanti. Le necessità soltanto posso sedare, i bisogni e i vizi meschini dei contadini arricchiti di una volta. Nel possesso immergo la testa e tutto il collo. Chiedo aiuto e, senza respiro, non posso sentirmi né farmi sentire.