domenica 13 novembre 2011

Desid'eri.


Potrei chiamare fortissimo e senza nome e tu sapresti che è per te. Eppure non verresti, perché ti piace sentire che corro e mentre corro muovo le mani per pronunciare parole che saranno soltanto tue. Potrei raggiungerti, infine e, stringendoti le braccia, morire del tuo volto sempre segnato dal sorriso. Eppure non ti faresti trovare, perché ti piace girare intorno agli occhi di chi ti guarda e berne e fartene accarezzare. Potrei metterci tutta la forza che ancora conservo e camminarti accanto senza sfiorarti o rivolgerti inutilmente la parola, solo per dimostrare che so aspettare anche oltre ogni umana comprensione. Eppure smetteresti di camminare, perché ti piace possedere il sentiero di chi ti adora, ma non la sua presenza a chiudere una via di fuga, anche una soltanto. Potrei costruire storie alte venti piani e senza ascensore, storie lastricate di specchi difficili a scalarsi a mani nude, come piacciono a te. Eppure non troveresti pace, perché la pace ti da noia e il tormento è bellissimo a vedersi. Potrei, infine, cancellare ogni tuo passo, affinché la terra non sappia che sei passata e il tempo non riesca a seguirti e a farti sua. Potrei vincere ogni mia illusione ed abituarmi davvero al dolore. Potrei invecchiare e vederti sempre bellissima e mai possederti. Eppure non smetteresti di darmi le spalle e neanche il tormento. Potrei. Eppure nemmeno ti ricordo.



sabato 12 novembre 2011

Come un uccello in rabbia.


Devo tornare indietro a riprendermi il corpo dove ho lasciato i rimpianti. Nella fretta della fuga, ho preso solo i ricordi e parte delle speranze che ho dovuto svegliare di soprassalto alle cinque del mattino.  Non la colazione, né spiegazioni o motivi per un tuffo lungo quanto quel che resta di una notte terribile. Ho guardato dove non c'era niente da vedere. Ho parlato a spazi che non avevano voglia, né tempo di ascoltare. Ho scritto della febbre con le sole mani e senza inchiostro, o carta, o copertine rigide, o scaffali, o polvere. Ho tremato a lungo e il freddo ha voluto illudersi d'avermi vinto e invece era solo paura. E ficcata la mano nel cesto dei giochi, ho avuto il tempo soltanto per tirar via i desideri e con quelli ho saputo sedare ogni rivolta, ho potuto sopportare ogni sacrificio. Ho raccolto gli sguardi bassi che ho trovato per strada e per quanti ne ho ammucchiati nel sacco che porto ancora sulla spalla, si direbbe che il cielo non lo guarda più nessuno.  Ed è una strada, quella che calpesto, una strada piccolissima, fatta per i piedi dei bambini, una strada priva di buche e di dubbi. Devo tornare indietro a riprendermi un poco della forza che ho sprecato nella lotta, una lotta che ho creduto essere la più importante che mi fosse destinata. Devo tornare indietro ma non ancora. Comincio un poco a piegarmi e corro sempre meno e guardo molto spesso ai lati della carreggiata e se pure sento un rumore costante di voci, direi che nessuno ha ancora scelto il viaggio che io ho deciso di intraprendere. Devo arrivare, devo guardare, devo pensare, devo essere uomo e motivo di vita per gli altri. Devo seguire col naso la punta delle mie scarpe, stranamente prive di polvere. Devo battere i tacchi ad ogni crocicchio e fingere che non ci sia modo di svoltare lungo una strada trasversale che chissà dove porta. Devo ignorarti e scoprire, al contempo, dove sei finita che neanche sento più dolore dentro al petto. E le menzogne dentro alla carta del pane. Gli abbracci fortissimi per nascondere il volto. Le lacrime calde per lavarsi la faccia dai sensi di colpa e dalla bocca degli sconosciuti. Devo vincere ogni rancore, capirne il significato, esaminarne le cause. Devo fare tutto questo e molto altro, mi pare. Non resta che trovare il modo di oltrepassare le pareti, solo questo.


domenica 6 novembre 2011

Ric'ordire.



E dentro al vento possiamo ancora sperare di trovare le voci che abbiamo cercato a lungo, senza mai riuscire neanche ad immaginarle. E dentro alla pioggia che ha smesso di essere salvifica, per sfuggire ai quei luoghi che definiamo comuni, dentro a quell'acqua furiosa possiamo mettere pure l'amore e la paura e la speranza e la rabbia e la forza e il coraggio e il domani e tutto quello che viene o non verrà. E dentro alle persone possiamo ancora conservare il ricordo dei nostri errori, la voglia tremenda di avere fame per il solo gusto della fame. E dentro alle mani possiamo dare giusto riposo ad altre mani frenetiche, quelle mani che hanno cercato i segni del nostro volto nel buio, per anni lunghissimi eppure pieni di dolcissime aspettative. E dentro alla terra possiamo mettere a giacere il disagio che ancora la terra sa darci. E sono stato piccolo invano, fanciullo inutilmente, adolescente terrorizzato, uomo insensibile per il solo timore di non esser capito. E dentro alle parole, infine, ho saputo nascondere tutto quel che volevo dimenticare e adesso che vorrei farlo, non me lo ricordo.

domenica 16 ottobre 2011

Metti in m'odio.

E sono sempre i cieli lontani quelli che ci mancano terribilmente e per andare a vederli dobbiamo restare sconosciuti per sempre. E' una specie di pegno, pagando il quale potremo stupirci dell'esserci trovati.

sabato 15 ottobre 2011

Stretta d'immane.


Come togliersi di mezzo e lasciar passare il tempo che arriva di molto lontano, a velocità parecchio sostenuta. Andiamo a guadare il fiume e non ci sono fiumi per chilometri. Andiamo a sondare il terreno e solo cemento ci è dato di camminare. Andiamo a portare un ricordo all'uomo che ha saputo vivere delle sole parole necessarie. Andiamo a regalargli un paio di lacrime inutili. Andiamo ad avvicinare l'orizzonte alle braccia tese degli altri. Andiamo a prenderci per mano, molto lontano, dove non possiamo vederci. Andiamo a correre dietro alle lucertole che si sono spinte persino in città. Andiamo a scalare i palazzi fingendo che sotto scorra un torrente dalle acque basse e furibonde. Andiamo a sentire il mare con la punta del piede per correre subito dove la sabbia odora ancora d'inverno. Andiamo a cercare le albe, sperando che abbiano una luce diversa dalle migliaia che abbiamo fotografato. Andiamo a mettere i gomiti dentro all'erba appena tagliata e nessuno la taglia da un pezzo. Andiamo a strappare dalle pareti tutti i calendari del mondo e facciamo dei secoli l'unica unità di misura. Andiamo a chiedere il permesso per vivere più degli altri e nessuno comanda fino a questo punto e nessuno ce lo potrà negare. Andiamo, ti prego, andiamo da qualche parte anche senza parlare ma lasciami libere le dita. Andiamo e tienimi i polsi. Andiamo e sorridi che ho la faccia seria per entrambi e le porte restano chiuse per chi non sa fare smorfie col viso. Andiamo senza preoccuparci del fiato e ridiamo delle discese che sanno farci cadere. Andiamo che ho voglia di andare e gridami che non è troppo tardi e fallo per tutto il tempo che puoi. Andiamo. Andiamo. Andiamo.

martedì 11 ottobre 2011

Circumnavicara.

Ed infine ho sognato di te le sole parole che avrei voluto sentirmi dire. Ho attraversato infinite volte l'enormità del letto con le mani. Ho alzato ogni giorno lo sguardo allo specchio e, mentre l'acqua lasciava il volto lanciandosi senza paura nel lavabo, ho pensato a un modo diverso per godermi la tua mancanza. Ed infine sono guarito. E' bastato mentire a me stesso.

lunedì 10 ottobre 2011

Tiriterra.






Vienimi a prendere e ho i vestiti bagnati. Vienimi a prendere e tengo forte i palmi delle mani sopra le cosce bollenti per il troppo freddo e la pioggia battente. Vienimi a prendere che da sempre ti aspetto e adesso sono stanco e voglio che tu venga. Vienimi a prendere che sono grande abbastanza per poterti amare come amano i grandi. Vienimi a prendere e ho le tempie che sanno pulsare il tuo nome. Vieni, adesso, ti aspetto e ho fatto del muro a cui appoggio la schiena una promessa seduta su fondamenta profonde. Vienimi a prendere perché adesso so parlare quella lingua tremenda che può far girare la testa. Vienimi a prendere e porto la notte nella tasca interna della giacca, sul cuore e muoversi dentro alle lacrime è un poco nuotare. 

Tutto d'un fianco.


Deve essere questo il vano motivo che spinge alla scrittura, l’insaziabile voracità dell’eterno che tende a sterminare chi ha il dono della peripezia letteraria. Il doppio salto mortale mi vede atterrare col collo spezzato. Cingimi d’aria e di tenebra asciutta, di poche parole e gesti complessi. Dalle dita leggere capisco i bisogni. Dalla voce sottile intuisco le umane paure. Dal luogo in cui vivi riporto speranze sopra un taccuino usurato. Ogni coperta riscalda i capelli bagnati dalla tempesta appena finita. Nell’orto i tuberi in festa sanno d’esser pietanza e dal grigiore lontano della città di provincia, questo borgo sperduto pare sommo quartier generale. Splendida epigrafe che ridona la vita ad ogni sguardo curioso, ad ogni passo estraneo della domenica mattina. La pietra lungimirante che regala l’immortale desiderio di essere occhi. L’inesorabile assenza di ogni parola. L’ugola sordida di chi trascorre supino il limitar dell’eterno. Si chiama riposo tra i vivi, comunemente rammarico. Tra gli uditori della temuta solitudine della mezzanotte, fra i quartieri disabitati riposa il gioco funesto di ossa lontane, lontane nel tempo e violente al ricordo. Il verbo si fa oscuro, alquanto dubbio, inutile, raro. Lo dissi a chi mestamente recava la mia mano nella propria, lo dissi che ero al limite del sopportabile, qualcosa di comunemente umano. Lo dissi a quel signore arguto che teneva tra le dita gli occhiali pesanti che governano il naso da anni, gli dissi che non avrei atteso ancora a lungo. Non fui creduto. In quale dubbio ti posso ancora trovare? Soltanto certezza. Il tuo colore bruno rimane soltanto certezza ed ancora clamore. Ogni parola che vieta la prosecuzione della verticale discesa agli inferi. Sento qualcosa di tipico e flebile provenire dal fondo del petto, un bellicoso residuo d’anima, qualcosa che non si estirpa come un canino, ancora affondato nella carne gioviale che era pure trofeo di bambino. Eppure ogni determinato momento pare buono al pensiero, ideale alla scrittura, ottimo alla profezia. Nulla ancora è come sembra. Troppo vicino al reale stupore. Apro la bocca e vi entra soltanto aria di seconda mano. Chiudo gli occhi e la luce non trova riposo mentre contorce alle palpebre chiuse, ermeticamente serrate. La vita non entra a far danno, oggi l’occhio riposa, la mente soggiace. Calata la notte, fuggiti i garzoni, moccoli di candela ovunque, vino che a raccoglierne ne vengono botti, sordidi odori che a respirarne si vien colti da tremendo malore, dadi da gioco e tazze d’acciaio, ogni cosa è caduta sul posto dove ci ha colto in flagrante l’astuzia megera del tempo. Corpetto pesante di donna vissuta. Vestito. Lenzuolo. Fazzoletto grondante. Ogni fronte ripete che è meglio la sete e non certo l’eterno stupore del provare a soffrire. In silenzio decidere di ogni cosa che non merita giudizio. Abbandonare la pesantezza delle braccia. Dal sonno lasciarsi dormire.

domenica 9 ottobre 2011

In male aperto.



Sotto la spuma, le lettere. Dentro al profumo, in grassetto, la parola mare. Sotto alla sabbia, la testa in corsivo. Dentro al rumore dell’acqua, centrato, il verbo soffrire. Sotto al sole verticale, dentro alla pelle che brucia, in maiuscolo, il timore e la speranza di svanire.

lunedì 3 ottobre 2011

Chi odi bene a chiave.

Era un sorriso quando ti guardavo a testa in giù. Era riposo quando le uniche avventure erano nel buio delle abitudini. Era una fuga quando sapevo soltanto progettarla. Era un dolore quando poteva diluirsi dentro ai sorrisi. Era un ricordo prima che diventasse una condanna. Era un latente timore quando non mi lasciava scampo. Era un futuro sempre in bianco e nero, vestito di un abbigliamento fuori moda. Era una minaccia quando solo il pugno stretto sapeva esser conseguenza. Era una luce abbacinante, quella che mi dava solo lattiginosa memoria. Era speranza, quella che oggi è paura.

Oggetti per il futuro.


Con un poco d'ingegno possiamo inventarci un mestiere che richieda un minimo investimento iniziale. I tuoi occhi, per esempio, giganteschi e serafici, profondi ed assenti, imbarazzanti e nascosti dietro ad una pettinatura sempre troppo poco pettinata, timorati della luce eppure nemici del buio, languidi e malsani, veloci e spensierati, attraenti e troppo spesso bagnati. Chiusi e per questo innocui. Possiamo aprire insieme un negozio di sentimenti. Tu mettici gli occhi, io porto le parole.

martedì 16 agosto 2011

Piove sul dannato.



Non è per me la serenità. Non è per me il buonumore. Non è per me la carezza della madre. Non è per me il bacio della partenza e del ritorno. Piove desiderio e me ne bagno, evito facile riparo, la giacca fradicia, la mente semplicemente confusa. Dove l’acqua dissolve persino il tessuto, dove la perniciosa operosità della caduta scava la roccia, dove il suolo raccoglie lo sguardo che scivola ai lati del perduto sorriso, in quel tempo perennemente presente, subisco l’apatia di chi mi precede, come quella di chi mi succederà, suo malgrado.

Detto tra poi.



E non ho voglia di vedere nessuno, sentire voci, abbozzare sorrisi, non mi va. Urla di patetici piccoli tiranni a quattro ruote. Strepiti imperiosi e dita dritte, puntate sulle madri. Non riesco a tirare gli angoli della bocca dietro alle orecchie. Chi mi guarda dovrà accontentarsi del vuoto. Chi mi incontra dovrà credere di potermi attraversare, da parte a parte come un muro d’aria. Una barriera, un soffio. Non sarà cercando la notte che troverò la pace. Non sarà chiudendo gli occhi che cesserà il dolore. Ritornano le sagome opposte per anni alla luce del sole, le ombre amiche. Le parole sussurrate nelle strade invase dal sonno, quei discorsi pieni di ira e risate, l’essere ancora quasi bambini. E non ho voglia di osservare la bottiglia che prende colore alla luce del lume, scostare corpi col dorso della mano, farmi spazio nelle note pesanti ed ottuse, non mi va. Rigido, al centro della stanza, in penombra, in un fasullo silenzio, dedito a riflessioni leggere che sembrano verità sul destino dell’uomo. Non è come sembra.

domenica 14 agosto 2011

Mosso di sera.


Quelle che chiedono un passaggio ai bordi della strada, sono solo note a margine, chiamate a spiegare, a farci spiegare. Così mi disse mentre tenevamo entrambi un capo della stessa corda. Ci eravamo giurati che quella piccola corda sarebbe stata il nostro legame fisico, fintanto che ne fosse esistito uno e che l'avremmo tagliata non appena fosse stato opportuno, necessario. Lei diceva tante cose, esattamente come facevo io. Il più grande sacrificio reciproco era trovare la pazienza necessaria ad ascoltare l'altro prima di sommergerlo con i propri pensieri. La proibizione più dolorosa a cui amavamo sottoporci era cercare di non consumarci troppo in fretta. Consumarci a vicenda era il mestiere che avevamo sempre sognato e lo facevamo in ogni senso possibile. Tutte queste cose mi vengono in mente, mentre stringo forte il mio pezzo di quella piccola corda.

domenica 7 agosto 2011

Bugie stanche.


Nulla è più bello che sederti accanto mentre parli e non vedi che sono felice. Osservare le labbra di cui sento costante il ritrovato contatto. Percepire che ogni piccola cosa diviene importante. Pronunciare parole che svestono panni troppo severi. Il vuoto allo stomaco del dirti, sereno, quello che provo nell'esatto momento in cui aspetto un abbraccio. Dare alle braccia il compito ardito di stringerti senza farti del male. Promettersi di non spendere troppe carezze. Cercare di non mettere l’anima in ogni bacio che non cerca la bocca. Nulla è più bello che metter da parte ogni futile motivo di ira, restare per ore sospeso nell'incredibile forza della tua semplicità. Arrossire perché scrivo soltanto per te. Leggere perché tu arrossisca e sorrida per i miei occhi lontani. Compiere ogni quotidiano dovere col puntello costante della consapevolezza di te. Ogni respiro è nuovo, quasi mi mette paura. Ogni motivo è profondo, quasi non temo che il tempo misuri la sensazione. Nulla è più bello che essere uomo e pensare che pensi e sarai presto vicina. Quante sciocche parole non temo di scrivere ancora.

domenica 31 luglio 2011

Ogni promessa è strepito.


Ho preso un enorme mucchio di ragionevoli dubbi e ne ho fatto fardello. Ho legato tutto all'estremità di un lungo bastone trovato per strada. Ho raccolto il ricordo di ogni nota che ha saputo portarmi fin qui, mi servirà. Mi serviranno tutte le note che hanno saputo tirare via i pomeriggi dalla testa, le notti dal petto, le attese dalle braccia. Ho assicurato ad una delle pareti dell'anima tutte le domande a cui ho sempre temuto di rispondere, avrò tanto da camminare e non voglio trovarmele sparse negli stati d'animo, col rischio di dover rubare tempo al sonno per rimetterle in ordine. Ho contato le forze rimaste e ne ho chieste in prestito a chi mi vuole bene davvero. Ho fatto pulizia dei meriti vuoti e delle speranze da arredamento, ne ho ottenuto cenere ed uno splendido fuoco che ha festeggiato la vigilia della mia partenza. Ho letto le parole che dovrò scrivere per ultime e pronunciare per prime ed ho tremato con il sollievo del freddo a luglio inoltrato. Ho appoggiato i palmi delle mani alla parete mentre la doccia mi ha scosso il collo per ore. Ho guardato l'acqua farsi vortice e sparire dimenticandosi immediatamente della pelle appena toccata. Ho percorso i luoghi cresciuti insieme alle mie gambe e questa volta senza guardarli, li ho attraversati con l'olfatto per non dimenticarne il sapore. Ho lasciato che le giornate afose mi accecassero anche ad occhi chiusi. Ho toccato le vecchie pareti sporche del centro. Ho messo la faccia sulla pietra lavica del passeggio che subito dopo pranzo si scioglie in deliziosi calori febbrili. Ho sorriso agli sconosciuti che non sorridevano. Ho fatto le scale carponi, le ho accarezzate per non vederle mai più. Ho sospirato forte come solo i cani nell'ozio sanno fare. Ho incastrato tra loro le mie paure e ci ho messo mesi a completare questa corda che voglio legarmi al corpo per potermene liberare durante un pericoloso numero di magia. Ho fatto deliziosi inchini a migliaia di facce che ho saputo maldestramente immaginare e vigliaccamente evitare. Ho dimenticato il significato della parola "tardi" ed è stata un'impresa spaventosa soltanto al ricordo. Ho fatto, insomma, quel che non dovevo e abilmente evitato quel che potevo. Ho aggiunto l'ultima acqua nel vaso, le ultime parole tra le labbra, gli ultimi desideri dentro ai polsi, le ultime ansie dentro ai battiti, le ultime carezze sopra al viso anelato, le ultime lamentele alle confessioni notturne. Ho dato gli ultimi abbracci al pavimento, gli ultimi silenzi a chi mi ha insegnato a riempirli, gli ultimi dispiaceri a chi ha sopportato il compito necessario di subirli. Ho dato corpo alle lettere e chiuso a chiave la porta. E quel che ho ancora da dire verrà via con me.

In bianco e vero.



S’adombra la fronte sudata del primo pomeriggio. È la festa che muore serena e inaspettata. Si cingono corpi che trovano luogo terreno nelle braccia meschine degli altri. Si placa il dolore sottile che tedia il petto ansimante. S’ode il richiamo dell’acqua salata. Si assapora sotto alla pianta del piede il vetro infuocato e sottile. E’ la calda agonia dell’ozio che schianta al cospetto della necessità.

Di necessità tribù.



La necessità soverchia ogni buona ragione e la mente subisce l’influsso deleterio delle basse esigenze. Le braccia dolgono per gli abbracci mancati. Le labbra tremano per i baci leggeri a cui si sono sempre sottratte. Le spalle si piegano per ogni volta che hanno comunicato indifferenza. La gola si strazia come in mancanza di acqua da ore, brucia per ogni maledetta parola lasciata sfuggire attraverso i timpani e mai pronunciata. La testa non trova riposo e sente il peso di un secolo che prende ruvida forma di roccia ed esplode per ogni volta che non ha ceduto alla necessità di trovare ristoro accanto al tuo collo.

domenica 17 luglio 2011

E se due mani.


E tornerai a mettere le labbra su tutte le parole che ho detto. Tornerai ad annusare tutte le promesse che ho tenute nascoste dentro alle stesse mani che ti stringevano la faccia. Tornerai a chiudere gli occhi un attimo prima di darmi un poco del tuo sapore. Tornerai a spiegarmi ogni dubbio che ho ficcato tra le sopracciglia, senza farne domanda. Tornerai a mettermi le mani nei capelli, come quando avresti voluto saltarmi al collo e invece appoggiavi la testa al petto ansimante. Tornerai a dirmi che in ogni momento, anche in quelli proibiti, non hai smesso mai di pensare ai nostri stupidi giuramenti. Tornerai a raccontarmi di come hai dormito col corpo dove la tua mente non c'era. Tornerai a convincermi che io posso credere a ciascuna di queste parole. Tornerai a travolgermi con le tue tenere chiacchiere, con i movimenti lascivi del volto, con le disattese speranze. Tornerai a raccontarmi di cose dentro alle quali non sono mai stato e porterò il mio indice alla tua bocca e, insieme, faremo silenzio fino a tremare. Tornerai a farmi paura, di quella paura terribile eppure piena di gioia, la stessa che ha saputo rendermi cara la vita. Ed è forse solo per darti coraggio che me ne privo.

lunedì 27 giugno 2011

Gli occhi. Breve studio d'impeto numero due. I miei.



Del sapore scuro degli occhi arrabbiati. Sanno di tutta l'acqua che li ha bagnati e non era pioggia e gli occhi del mondo, nel frattempo, ridevano. Sanno della rabbia che li ha animati nel loro forsennato roteare. Sanno dei cuscini che li hanno accolti quando avevano troppa paura per guardare. Sanno di tutti gli altri occhi che avrebbero voluto sfidare e vincere. Sanno del suolo che hanno visto dopo ogni fallimento. Sanno delle spalle che hanno occluso loro lo spettacolo dell'essere primi. Sanno un poco pure della debolezza e delle paure e del rimorso e della vigliaccheria e dell'amore smodato per quel che ha saputo dar loro sempre nuova speranza. Sanno di mille pagine divorate al lume di una candela che ha sbagliato secolo. Sanno di nomi e facce che non sono mai esistite se non nei nomi e nelle facce di chi li ha pensati. Sanno della battaglia rimandata. Sanno di un rancore che non cede il passo alla serenità. Sanno di ogni occhio che ci si è fermato dentro un istante. Sanno di dolore perché ne hanno un bisogno malato. Sanno della stupidità immensa dell'essere adulti. Di queste poche cose soltanto, sanno davvero i miei occhi.

Gli occhi. Breve studio d'impeto numero uno. I tuoi.



Di sorrisi che spingono le orbite al cielo ma di silenzi che le fanno ripiombare in fondo allo stomaco. Di ingenuità delicata e cattiveria per finta. Di emozioni guardate con avidità e attese desiderate terribilmente sotto alle palpebre. Sanno dello sforzo tremendo di guardare nel buio, quando il resto della casa e della strada e della città e del mondo, sta stupidamente dormendo. Sanno del gusto proibito delle cose belle che finiscono in fretta e non spettano a tutti e non a comando. Sanno di disobbedienza. Sanno di mancanza d'orientamento. Sanno di quell'odore malsano che provoca la pazzia, quell'odore di fame insaziabile. Di questo sanno, i tuoi occhi per come li vedo.

sabato 25 giugno 2011

Morte di un complesso viaggiatore.


Chiusa qui dentro, è una lunga gestazione di parole roventi, animate dall’atavica cattiveria della sopravvivenza.
Nulla resta davvero per sempre sul fondo ed affiora, rinasce, risale la corrente.

In luogo del delitto.



Quando ho potuto combattere, ho riposto con cura le armi per il solo timore di non riuscire a vincere battaglie ancora più grandi ed eroiche e pericolose. Quando ho potuto sedere, tenendo la faccia stanca tra le mani e riflettere e perdermi in pensieri costruttivi, ho corso per il solo timore d'esser raggiunto e interrogato. Quando ho potuto liberarmi, ho preferito cedere ad un lamento sordo e costante, un sibilo tra i denti, un vibrare leggero di labbra, un impercettibile suono di ribellione. Quando ho potuto far casa dello spazio libero sotto ai ponti, ho preferito circondarmi di cose inutili e persone poco disposte a farsi possedere senza nulla in cambio. Quando ho stretto i tuoi polsi dentro ai palmi delle mie mani. Quando ho strisciato, consapevole dei limiti fisici delle mie ginocchia. Quando ho camminato freneticamente intorno ai luoghi che ospitavano la tua cattivissima indifferenza. Quando ho fumato il mio desiderio in notturni pacchetti da venti. Quando ho rubato a me stesso. Quando ho saputo ficcarmi qui dentro tutto il dolore dei tuoi sbagli fintamente ingenui. Quando un coraggio soltanto accennato mi ha fatto scoprire codardo, punendomi col dolore della consapevolezza che altri hanno potuto dormire il tuo sonno. Quando mi sono lasciato cercare e trovare. Quando ti ho spiegato mille volte che forma potevano avere le mie parole. Quando ho fatto il possibile per sentire la tua piccola mano ribellarsi in uno schiaffo veloce. Quando ho dovuto sentire le tue labbra coi denti e tu non te lo aspettavi. Quando ho perso il sonno, irriso il giorno, adorato la notte, cambiato atteggiamento, ostentato il sorriso, mentito a me stesso per farti felice. Quando ho fatto tutto questo, nemmeno me lo ricordo.

sabato 4 giugno 2011

Sconosciuto al binario.



Stanco e distrutto,
completamente annientato da quest’odore dolciastro che non vuol saperne di lasciar le narici.
Quasi lo vedo e diviene palpabile a tratti,
un tanfo nauseabondo di salute e dramma al contempo.
Un olezzo che cura il corpo ed attacca l’indole allegra di un uomo comune.
Sono stanco di respirare luci al neon blu e linoleum che fischia al puntare d’un passo deciso.
Sono stanco della parete oltre la grata,
forse che la malattia voglia davvero lasciare questa carne saporita e bianca?
Sono terribilmente sconfortato dalle lungaggini burocratiche di questa fine drammatica che arriva in fretta ma non abbastanza.
Ogni pianto di là nel corridoio è una scena di troppo,
già da un pezzo avrebbero fatto figura migliore i titoli di coda,
i saluti ed i ringraziamenti a ciascuna comparsa.
Non posso più sopportare il peso infinito dell’ago che affronta la resistenza neghittosa della pelle precocemente invecchiata,
il buco violento che ne consegue.
Non tollero più il cotone stretto al braccio,
né gli sguardi odiosi della pena.
Arriva il quarto a mezzogiorno ed il pranzo è servito dall’alto.
Scatena l’inferno nelle viscere ogni sorso a lenire la sete.
Con magistrale cadenza ed elegante solidità,
un flusso costante che prolunga le riflessioni amare del poco tempo rimasto.
Dannazione.
Tutto il dolore della dipartita,
mentre ancora ci si dibatte al suolo tra i vivi.
Tutta la follia del corpo che cade in pezzi minuscoli ma nessun segno di morte.
Nessuno che afferri questo polso disposto a lasciarsi portare.
Nel rumoroso andirivieni della stanza,
nell’umido e mesto alternarsi di visi strappati alla quotidiana apprensione,
nella vita oltraggiosa di chi non ammala e non muore,
ad ogni istante è ancora odore dolce di salute temporanea,
di suolo asettico e resistente al destino.
Voglio respirare, mio Dio!
Voglio sentire il cherosene farsi liquido sulla lingua,
i pneumatici puzzare di vettura nuova fiammante.
Desidero avvertire di lontano l’acre miasma dell’essenza di semi che frigge per la centesima volta,
il profumo del cioccolato che presagisce un sapore ancora migliore.
L’odore mesto della casa alla sera,
dopo due pasti e il silenzio della giornata di lavoro.
Voglio vivere come si vive o morire.

venerdì 3 giugno 2011

Nell'addome del padre.



Seduto ai bordi della strada, i pantaloni di cotone grosso nel fango. Veloce, lungo le pietre e in mezzo alla polvere. Niente case ad intralciare la vista. Sdraiato. Immerso nella salsedine morbida che avvolge la pelle. Le caviglie nel grano, i polsi nell'acqua, la faccia dentro alla terra. In tavola il pasto quotidiano che ristora la schiena, le donne mute e la farina fino ai gomiti. Le piccole giacche sdrucite, poche lezioni per imparare a firmare. La raccolta al mattino, l’alba in cornice, in mostra perenne. La bestia che scaccia l’insetto, i denti piantati nel fieno. Le scarpe senza stringhe, i piedi senza scarpe. Le grandi foglie verdi coi frutti che pungono e fanno star male, le uova rubate al sonno pomeridiano del fattore, il latte nel secchio, il formaggio in soffitta, il vino sottochiave. I romanzi a due lire sotto alla pietra grossa, nell'orto. La fantasia femminile repressa, la figlia del contadino disposta a pagare, le poche letture di una larga periferia senza centro, bianca, silenziosa, acre. I cani rincorsi nei vicoli, i roghi, le forche cattive dei bimbi di strada. La carne alla domenica, una domenica al mese. Le grosse fette di pane, sporche di qualcosa che avesse sapore. L’educazione senza parole, il pudore inflitto a schiaffi, le madri sveglie fino al mattino, otto in un letto. Le vecchie, immobili sulle sedie impagliate. Nel secchio appeso al muro, il giardino invidiato, le liti spiate, le risa senza rimorso, i furti senza peccato, le albicocche mature fino a scoppiare, la brace accanto alla porta, la cenere per spegnere a sera. Il lutto pesante dei lunghi giorni d’estate, il destino patriarcale inflitto alle vedove, il carretto col ghiaccio, il vaso comune per rovesciare i bisogni, le necessità relative. Una piccola sopravvivenza quotidiana, masticata come la prima gomma portata dai soldati. Lo stupore dei bimbi, le divise cucite sui volti neri di alcuni strani americani. Le capre ed i pesci, gli odori frammisti all'olezzo, le rare nebbie all'altezza del capo, le sigarette di giunco rubate alle scope solerti, i corpi vestiti a festa lungo i ruvidi muri della stanza e i balli proibiti sotto gli occhi dei padri, l’amore senza toccarsi. Nei solchi che una volta erano caldo ristoro per le zampe trainanti delle bestie da soma, persi tra i fumi del sottosuolo appena smosso, senza respiro. Nella sabbia dei fondali dove oziano i molluschi. Nella paglia bagnata. Tra i rovi, dove si nascondono i dolci frutti selvatici. Camminando senza motivo.

mercoledì 25 maggio 2011

Freno amano.


E in tutte le mie domande si annida la stupidità di chi non tollera i dubbi. In tutti i miei dubbi si nasconde l'insana morbosità di potersi dare anima e corpo. E le risposte sono già mischiate ai nostri silenzi. Tutte le risposte sono nell'attesa. Tutte le risposte sono nell'ansia, nel desiderio, nell'immaginazione febbrile, ogni volta che chiudiamo gli occhi. Le risposte sono incastrate tra i singhiozzi e i mal di testa. Le risposte sono nella voce tenuta ferma con la forza, nella gola che schiarisce un suono fasullo, negli occhi immaginari, nei capelli che attanagliano le mani, nei respiri che squassano le orecchie, nella promessa sublime di un odore personale che porti la vita su per il naso e raddrizzi il corpo in convulsioni violente. Le risposte, quelle vere, sono nella necessità che accieca e rende i rischi un gioco da ridere. Le risposte sono nella ricerca, quella spasmodica, nella mancanza del fiato, nelle apnee reciproche. Le risposte sono nei vezzi e nelle scaramucce per finta. Tutte le risposte sono nel bisogno intimo, bilaterale, profondo, esasperato, urlante, carnale. Nelle promesse timide eppure terrificanti, nel cercarsi ai quattro angoli, fin dove l'occhio può sperare di sbattere contro il petto dell'altro. E tutte le parole su quel che è più giusto, sono soltanto tentativi vani di non concedersi la consapevolezza che la felicità esiste. Ed avevamo dimenticato, nostro malgrado, che tra le necessità primarie, accanto al cibo e al sonno, ci potesse essere un nome.

lunedì 16 maggio 2011

Ti.


Ti. Dietro una sillaba, un milione di parole pulsanti. Ti. Dietro a due lettere, altre che spingono. Ti. Dietro ad un breve inizio, una fine grandiosa. Ti. Dietro ad un dubbio piccolo quanto una consonante e una vocale messe insieme, una certezza grossa quanto una casa per due. Ti. Con tutte le lacrime calde che posso tenere segrete. Ti. Con tutto il me stesso che non ha ancora perso la ragione. Ti. Ogni volta che una notte finisce e riesco a sfuggire al buio, al sonno. Ti. Ogni volta che una promessa si annida dentro al tuo nome. Si, ho un'idea, che tu sia qui. Ho un'idea, che tu sia vicina. Ho un'idea, che tu esista. Per sempre, quella cosa scura e profonda, quella parte segreta, quella parte di nuovo viva, quella parte che brucia al fuoco senza sapersi consumare, quella parte ch'era ferma ad aspettare, quell'appuntamento lungo trent'anni, al quale sono puntualmente mancato, quell'impegno che non sapevo di voler rispettare, quella canzone che suona uguale alla mia, quella cosa che mi sta impedendo di sbattere l'indice sopra a un punto, solo virgole, voglio che sia, solo virgole la nostra vita.

sabato 14 maggio 2011

Se questo è un fuoco.


Vienimi a prendere. Mi lascerò prendere. Vienimi a guardare e non mi opporrò. Vienimi a togliere le mani di dosso, mi lascerò prima toccare. Vieni, ti aspetto. Con una mano tienimi al muro e con l'altra aprirmi il ventre da parte a parte. Vieni a prenderti le mie notti, tutte quante. Vieni a dormire il mio sonno, mi lascerò consumare. Vieni a cancellare le mie parole, mi lascerò riscrivere. Vieni a togliermi il fiato, mi lascerò respirare. Vieni, non farti pregare, lascerò aperta la porta, fingendo di non averla chiusa per sbaglio. Vienimi a cercare con sguardo torvo e minaccioso, mi lascerò trovare. Vieni a togliermi il tatto dalle mani, lascerò che tu le riempia di desiderio. Vieni a farmi a brandelli, masticami, schiacciami, scioglimi tra il palato e la lingua. Vieni, entrami in bocca ed avvelenami, il tuo sapore mi piacerà.

martedì 3 maggio 2011

Unto di domanda.


Gli chiese dove sarebbero andati, ora. Ora che lei gli aveva dato il suo cuore e la prova di un amore che da sempre era stato eterno, da prima che lui la scoprisse mentre lo guardava in maniera fintamente distratta. Gli chiese cosa avrebbero fatto delle loro vite, così intrecciate, l'una all'altra, così indissolubilmente compromesse e tanto selvaggiamente spinte verso l'ignoto. Lei gli chiese tutto questo, soltanto stringendogli forte la mano. Cosa avrebbero fatto della paura delle persone che volevano loro del bene, alle quali sarebbero sicuramente mancati? Cosa avrebbero fatto delle ginocchia sbucciate nelle cadute inevitabili che la corsa impone? Cosa avrebbero fatto della fame che li avrebbe colti da un momento all'altro? Cosa avrebbero fatto delle promesse già mantenute e di quelle che ancora aspettavano di essere pronunciate? E delle speranze nascoste, delle emozioni negate, delle parole sottintese, cosa avrebbero fatto? Dove sarebbero andati a piantare il seme possente della reciproca fiducia, dell'ingenua passione? Gli chiese dove avrebbero dormito quella notte e le successive. Ora che lei aveva messo l'intera sua vita dentro alle parole sublimi che lui sapeva inventare. Cosa avrebbero fatto dei viaggi per i quali non erano ancora partiti? Cosa avrebbero fatto di tutti quei luoghi che avevano tolto loro il sonno? Di tutti i treni presi al volo e senza biglietto? Della terra guardata dal cielo e dei vuoti d'aria prima di atterrare dove fa sempre caldo, cosa avrebbero fatto? Bugie perdonate, telefonate interminabili, spiccioli rubati, lacrime evaporate nell'attesa estiva, morsi dolorosi quanto quelli della fame non saziata, biglietti scritti a mano, bracciali fatti di sottilissimi fili colorati, narici piene di respiro, petti ricolmi d'affanno, gole attraversate da muscoli cardiaci, danze, fuochi, note, giorni, ore, minuti. Gli chiese tutte queste cose, mentre gli camminava davanti, convinta che lui le avrebbe risposto. Lui non c'era, non c'era da un pezzo.

domenica 1 maggio 2011

Opere e ammissioni.




E datemi in pasto ai leoni. Spogliatemi delle bugie che mi hanno nascosto alla vista degli altri. Legatemi le mani in modo che non possa farne arma o strumento. Bendatemi gli occhi con i quali ho potuto spiarvi per mesi. Lasciatemi sulle ginocchia, in modo che il dolore possa farmi pentire davvero. Tiratemi indietro la testa e costringetemi a bere da un bicchiere d'aceto. Date fuoco a quel che ho messo su carta, a tutto quel che ho detto senza pesarne il potere. Picchiatemi forte sul capo, affinché tutti i pensieri possano uscirne scappando, senza che abbiano il tempo d'imbellettarsi e farvi del male. Prendetemi senza chiedere conto della mia volontà. Trascinatemi nel mezzo della notte, mentre il cuore sfonda il petto ed il sangue pulsa nelle meningi. Esponetemi al giudizio del popolo. Gridate il mio nome tra le risa di scherno. Liberatevi della mia libertà.

lunedì 11 aprile 2011

In balia delle orde.



Navighiamo ormai da ventisette anni, undici mesi, venti giorni, ventidue ore e poco più di trenta minuti. Non trascrivo coordinate. Da un pezzo non siamo più in grado di  leggere la nostra posizione rispetto alle carte. Da un pezzo le carte giacciono al suolo, ridotte a brandelli dai sorci. Le bestie affamate restano a bordo. Buon segno. Il vascello pare solido ed ancora in grado di reggere il mare. Tra pochi minuti sarà nuovamente tempesta. Il rollìo ha preso a divenire pesante. Esplosioni di luce aumentano per frequenza ed intensità. I sordi rumori, lontani fino al tardo pomeriggio, sembrano ora schiantare le assi ad ogni istante. La stiva è stracolma di immagini. Il Capitano sembra fuori di testa. Continua a ritrarre paesaggi che il resto dell’equipaggio non riesce a vedere. Temo per la vita di tutti. Quando le scorte di serenità si abbasseranno pericolosamente, allora sarà il peggio. Temo per i sorci ormai cari. Saranno i primi a morire tra i flutti. I sorci sanno nutrirsi di qualsiasi cosa. In mezzo al mare però, non troveranno nulla di solido di che sfamare le proprie voraci interiora. Povere le mie bestiole. Mi guardano scrivere, mentre prendo respiro faticosamente. Mi osservano, mentre prendo ristoro lunghissimo tra un capoverso e l’altro. Il Capitano non è più sostegno per gli uomini. Ciascuno si aggrappa al proprio buonsenso. Il Capitano è dimentico dei luoghi di partenza. Tantomeno ricorda dove eravamo diretti quando salpammo. Pur non essendo pochi, invero, abbiamo perso l’abitudine al contatto umano. Trovassimo la terra oggi, avremmo bisogno di rieducarci alla civiltà. Vivere a lungo in tale promiscuità, ci rende indifferenti gli uni agli altri. Il secondo mozzo non scuote le nostre coscienze più di quanto non faccia l’albero maestro nelle giornate di vento. Dopo un tempo determinato che non ho saputo fissare nei numeri, ciascuno smette di esistere per l’altro in quanto privo di qualsiasi forma di novità. Alla stessa maniera delle cortigiane che lasciammo inconsapevolmente per sempre, la sera prima della partenza, navighiamo senza motivo. Non sappiamo quale sia il desiderio comune più forte. Tornare, andare, trovare, affondare. Il moccolo, negli ultimi istanti di luce, nel tentativo di non fermare questo meschino racconto, resiste all’inevitabile fine scoppiettando. Una goccia bollente mi riporta brevemente in vita. Questo piccolo dolore al dorso della mano destra. Un brevissimo attimo di lucidità. Il Capitano è solo, sul ponte. Il Capitano è solo, ovunque. Nessuno gli rivolge più la parola. Li guardo tutti. Tutti mi guardano brevemente, poi tornano alle loro monotone cose. Spesso vorrei discutere del viaggio, chiedere alla mia ciurma il da farsi. Poi resto in silenzio, aspetto. Il Capitano vive solo dei ritratti che, dalla realtà, sembra riportare con estrema cura. Non c’è realtà da dipingere intorno. Egli aspetta. Sono talmente stanco. Lascio il banco sottocoperta. Salgo al timone. Anche stavolta dovrò condurli fuori dalla burrasca. Sono pur sempre il maledetto comandante di questo equipaggio!

domenica 10 aprile 2011

La bocca della vanità.


Ho peccato. Ho sbagliato. Ho cambiato troppe cose che avrei dovuto lasciare com'erano. Ho provato e riprovato. Ho respirato senza averne il fiato. Ho corso pochi rischi, troppo pochi. Ho recitato senza copione. Ho mentito senza ritegno. Ho biascicato scuse. Ho immaginato troppo e troppo poco. Ho scritto meno di quel che avrei voluto. Ho sofferto e presto dimenticato. Ho temuto di non dimenticare mai. Ho perso il sonno dei giusti e l'occasione dei meritevoli. Ho masticato invidia e sputato vendetta. Ho riso ma non abbastanza. Ho sussurrato quando avrei dovuto gridare e gridato quando avrei dovuto tacere. Ho messo in spalla troppo silenzio. Ho trascinato troppe intenzioni. Ho trascurato il mare. Ho temuto la notte. Ho guardato senza averne il permesso. Ho eseguito senza capire. Ho regalato quando avrei dovuto vendere e venduto a prezzo troppo basso. Ho sopportato il dolore dell'anima e l'incognita del dubbio. Ho dubitato di ogni cosa. Ho creduto di non credere e ho pregato solo per estremo bisogno. Ho fumato troppe sigarette senza apprezzarne il tabacco. Ho smesso troppe volte di fumare. Ho bevuto senza farci l'abitudine. Ho mangiato per nutrirmi. Ho lasciato al caso quel che avrei dovuto tenere per me. Ho assecondato le paure. Ho disconosciuto il coraggio. Ho apprezzato la solitudine. Ho usato la lingua per sentire il sapore dell'odio. Ho odiato senza cattiveria. Ho creduto di crescere. Ho pensato di vincere. Ho smesso di combattere. Ho desiderato il riposo. Ho riposato senza ritegno. Ho illuso i semplici di spirito. Ho dispensato parole come se fossero vere. Ho nascosto troppi doveri sotto al tappeto. Ho nascosto il tappeto sotto al divano. Ho nascosto il divano in cantina. Ho nascosto la cantina sotto a un palazzo. Ho nascosto il palazzo sotto ad un cielo enorme. Ho nascosto il cielo sotto allo spazio. Ho nascosto lo spazio dentro al petto. Ora lo gonfio, respiro forte e tutto passa.

domenica 13 marzo 2011

A punti.


Se volessi scrivere, dovrei mettermi comodo e chiudere gli occhi un attimo, tirare forte il respiro. Se volessi davvero buttare giù due righe, dovrei roteare la testa sul collo, aspettando che i muscoli dimentichino l'inutile giornata d'attesa. L'attesa, quella inutile, è spesso l'esercizio fisico più logorante. Dovrei sciogliere in acqua bollente qualcosa di profumato e rilassante, da sorseggiare mentre sistemo gli occhiali sul naso. Dovrei avere sulla scrivania almeno una matita, da portare ogni tanto alla bocca. Dovrei riporre in qualcosa almeno un po' di fiducia, se volessi colorare un foglio di carta senza sporcarlo soltanto. Dovrei procurarmi una luce vicina, potente eppure timida, calda eppure disinteressata. Se volessi attingere ai ricordi per farne racconto, dovrei averne di adeguati, conservati con cura, riposti nell'ordine giusto, catalogati, inamidati e pronti per l'occasione. Dovrei avere la forza ed insieme la libertà di non rispondere alla prepotente voce del sonno che chiama, sussurra, sibila, promette, afferra, accarezza, seduce. Se volessi pigiare i polpastrelli sopra le lettere bianche, ricordando con tristezza che per qualcuno è stato un mestiere, dovrei articolare un pensiero di grande respiro, ricco di particolari e promesse. Dovrei incontrare un personaggio e dargli vita e passato ma anche sostanza e futuro, parole ed espressioni. Dovrei creare strada per i suoi passi e tramonti per le sue ombre, baci per le sue labbra e giovani donne per i suoi amori. Dovrei dargli stile e coraggio, capelli al vento ed un piglio assai risoluto. Se volessi arrivare al lavoro, domani, senza la forza per reggermi in piedi e farmi guardare di sghembo da chi mi passa la paga, dovrei raggiungere l'alba con gli occhi iniettati di sangue e la mente trapassata da troppi pensieri. Se volessi scrivere dovrei farlo ora, ma non ho niente da raccontare.

domenica 20 febbraio 2011

Il pianto è servito.


Come l’inusuale pianto della notte
Non verso una lacrima
E’ solo la vita meschina
Un singulto          
Un rigurgito
L’anima

Come è odioso soffrire
Questa sofferenza così delicata
Impalpabile
Estrema

Non porto il gesto alla tempia
E tutto finisce nel verbo     

Questo fragore che si contorce nel petto è la paura di tutto.

sabato 5 febbraio 2011

Scambiatevi un segno di brace.


Dove la trovo una mente di scorta? Un cervello di ricambio? Una coscienza pulita? Un'anima nuova di zecca? Una sensibilità ricostituita? Una cattiveria meglio radicata? Un piglio severo? Un'insicurezza meno presente? Un motivo valido? Uno scopo preciso? Uno stimolo nuovo? Un amore abbacinante? Un delirio poco evidente? Un coraggio determinante? E un ascensore fuori servizio? Dove lo trovo? Una corda delicata e al contempo priva di scrupoli? Una finestra spalancata sull'asfalto lontano alla vista? Una traiettoria interrotta? Un luogo sperduto e a portata di mano? Nuova vita per i polsi? Dove la trovo? Stimolo per le dita? Vigore per la lotta? Forza, pazienza, tolleranza? Dove le trovo? Vi supplico, datemi una risposta ed in nome del dubbio scambiatevi un segno di brace.

martedì 1 febbraio 2011

Specchio delle mie trame...


Sembra buio. Invece è soltanto quella breve sensazione di cecità causata da un'esplosione di luce. Come svegliandosi nel cuore della notte per un bicchiere d'acqua. Tornando a letto, mentre è flebile la speranza di non beccare in pieno una parete, muovendosi nel buio della casa, fidandosi delle abitudini, della sedimentazione dei movimenti quotidiani. Cercando di raggiungere il giaciglio morbido che ancora conserva il nostro tepore, una veloce svolta a sinistra, una capatina in bagno. Nessuna necessità. Lo specchio però ci aspetta per tutta la notte. Un passo, con le dita assonnate pigiamo l'interruttore, la luce. Un intenso istante  di dolore visivo. Macchie verdastre agli angoli degli occhi. Veloci come ghigliottine, le palpebre calano a ricreare un benefico buio artificiale. Poi l'abitudine si fa spazio pian piano, due passi ancora, un gradino, il cuore che batte, d'un fiato lo sguardo all'immagine riflessa. Si, che sollievo. Il viso è il solito, nessuna sorpresa notturna, troppi romanzi macabri, tutto qua. Nel silenzio  fisso ed a tratti strafottente delle stanze che dormono, delle strade che tacciono, mentre gli occhi sono puntati negli occhi familiari dall'altra parte del vetro, la paura tremenda di una metamorfosi repentina. Il viso che perde i tratti umani per acclararsi come punizione ai peccati, come giustificazione al malessere. Nulla invece. Le mani lasciano il lavabo freddo sul quale avevano trovato attracco sicuro. La luce è nuovamente spenta. Il passo velocissimo sino al letto. Le coperte si accollano responsabilità che solitamente spettano alle pareti ed al soffitto. Le lenzuola respirano, solo questo, nella notte, può spiegare certi rumori sottili e vicini. Quasi ritorna il sonno tranquillo, la stanchezza meritata. Nella necessità comune di mettersi a giacere sull'altra spalla, distrattamente una mano sul volto. Il terrore che immobilizza i felini domestici mentre l'auto sopraggiunge ad ucciderli, lo stesso terrore impone improvvisamente le mani giunte, il fiato corto e veloce. Le ore passeranno e la fronte gronderà la paura liquida che durante la corsa è sudore. Il mattino tanto lontano quando lo si teme, non arriva mai quando lo si desidera, una ovvietà. Domani, domani mattina, con la luce naturale, tutto sarà passato.

mercoledì 26 gennaio 2011

Messaggio nella poltiglia.



Non hanno forma alcuna queste mie parole raminghe. Non sanno cantare, né parlare, né farsi strada dove c’è buio. Nascono sempre più sporadiche, corrono agli angoli della stanza e siedono sulle ginocchia, con la testa tra le mani. Non hanno forza queste lettere in ordine a formare preghiere insensate. Non sanno imbellettarsi ed apparire sotto le luci fasulle della sera. Restano sempre più spesso dove l’orecchio non le può ascoltare, rasentano i muri, strisciano una fuga meschina, vivono una vita leggera. Non hanno parole queste mie labbra, serrate in uno sformato sorriso, tirate in urlo violento, passite al peso dell’infelicità.

domenica 2 gennaio 2011

Morto circuito.


Provo a non ascoltare. Provo a leggere quello che scrivo mentre lo scrivo. Provo a ricopiare su carta quello che penso. Provo ad ignorare ogni opinione, ogni colore cangiante, ogni sorriso forzato. Provo a tenere il naso fuori dall'acqua. Provo a fingere che l'acqua non sia fango. Provo a provarci ma non abbastanza. Per il vero, non ci provo affatto. Quasi non respiro ed alla paura aggiungo ogni altra sensazione. Con gli occhi immersi nel liquido, con l'udito sommerso, con il cuore che schianta nel petto, con il sangue che lacera la carne, nell'esplosione imminente, cerco i volti che non mi appartengono. Sono in effetti quello che non vorrei, quello che non ho mai voluto essere. Sono in pace e senza fiato.

sabato 1 gennaio 2011

Psicodialisi.


E sono malato. Adoro iniziare il periodo con una congiunzione. Ma non è questa la diagnosi. Sono annientato da una malattia delicatissima, leggera, trasparente, tiepida e confortevole. Per lasciare che intendiate, è come essere avvolti dentro a metri e metri di pellicola per alimenti, la stessa che usavano le vostre madri per conservare il cibo dentro al frigorifero. Stretto da pareti resistenti eppure modellabili. Asfissiato ma non a morte. Sono pesantemente infettato. Inguaribile. Avido di questo malessere, penetrato e deliziosamente travolto, da un dolore letterario. Ho contratto il lavoro in giovanissima età e lo confesso, è questa l'orrenda infezione che squassa l'intestino delle mie giornate. E' questo il morbo profondamente radicato nel silenzio delle ore notturne, sottratte indegnamente al dovere. Così puerilmente sottomesso alle responsabilità, da temerne la punizione, come fossero, queste ultime, entità vive. Nessuna, tra le cure conosciute, potrà ridarmi il sorriso, il volto tremendamente segnato dagli spasmi dell'insofferenza in un'unica espressione priva di gioia. Non è reversibile, questo morbo maledetto e neppure contagioso, affinché possa portarvi tutti con me, per allentare la sofferenza. Si mangia, lentamente, lo stomaco inerme. La piaga che mi possiede, suole di notte sbocconcellarmi il ventre. E non c'è giorno di festa che non produca un chimico senso di colpa, un'attesa spasmodica e crescente del ritorno all'insopportabile tedio dell'operosità. Durante l'anelato e meritato riposo, mi produco in incontrollabili moti di punizione preventiva. Restare immobile, inabile, inattivo, sensibile eppure silenzioso, è l'espressione più malvagia di questo male. E' un'epilessia dei sentimenti, uno sbocco violento ed amaro delle sensazioni, un rigurgito di lacrime, dove la bocca gioca l'appagante ruolo dell'occhio. Non so come uscirne davvero e ve lo confesso. Di virtù, ho fatto mio malgrado necessità e ora pago a carissimo prezzo. In uno spirito debole, le abitudini e le costrizioni trovano facile nido, ove covare insicurezze e paure, timori ed oltraggi. E non sono più io. Non sono più quell'insieme sconsiderato di dubbi e di sogni, quel groviglio di sentimenti e labbra tremanti. Le necessità soltanto posso sedare, i bisogni e i vizi meschini dei contadini arricchiti di una volta. Nel possesso immergo la testa e tutto il collo. Chiedo aiuto e, senza respiro, non posso sentirmi né farmi sentire.