mercoledì 25 settembre 2013

Come un ricordo è quel che ancora deve accadere.


Come un ricordo è quel che ancora deve accadere. E sembra già avere il gusto assoluto di quel che hai tenuto in bocca a lungo, centellinandone a ogni istante il sapore lento, meraviglioso, morbido, enorme e al contempo minuscolo. Proprio come quello di un bacio che non sapevi avresti dato. Proprio come quello di un odore che non osavi immaginare avresti sentito. Ricordato. Desiderato. Cercato. Come un ricordo è quel che ancora deve accadere. Eppure niente che sia davvero importante sembra essere accaduto già. Quella cosa sciocca del chiederti se posso lavarti i capelli — ricordi? — un bisogno delicato che non so bene se sai cosa voglia significare. Sono capace — e questo davvero non puoi saperlo — di ripetere certi movimenti un numero infinito di volte, e così voglio fare tra la schiuma e la tua pelle, con una lentezza simile all'infinito, aspettando che i tuoi occhi, finalmente privi di allerta, si chiudano mentre compio quello che ho sempre pensato come uno dei più delicati gesti d'amore. E già che la parola amore è così rozza e orribile, tutta sporca del sangue la cui intensità dentro al cuore dipende da essa stessa, senza tregua, senza compromessi, allora la bandiremo. La bandiremo come un ricordo che deve ancora accadere. E siccome non dimentico facilmente le cose belle, mi ricordo anche la tua risposta sottovoce, il tuo permesso di poterti mettere le mani sul capo, a patto che una volta asciugati i capelli, fossi io stesso a... Come un ricordo è quel che ancora deve accadere. Come il passato è quel che non sappiamo evitare che accada, sempre presente, sempre attento, sempre sveglio, sempre sorridente di quel ghigno a cui si può essere indifferenti, basta averne voglia in due. Voglio domandare, chiedere, guardare. Voglio annusare, sfiorare, respirare. Voglio parlare, ascoltare, sorridere. Voglio la tua mano nella mia almeno una volta al giorno, un giorno lungo tutti quelli che riesco a tenere stretti tra me e te. Voglio fare qualcosa che mi hai chiesto di fare, chiederti di fare qualcosa per me. Cose stupide come aprire un barattolo o andare a comprarlo al supermercato, o pregarti di correggere una cosa che ho scritto, oppure scriverne una insieme. Come un ricordo è quel che ancora deve accadere. Non uno qualsiasi, ma raramente bello, di quelli che non fanno paura, ché la paura brucia ma non riscalda, sazia ma non nutre, bagna ma non disseta. Il pomeriggio è lungo come ne contenesse altri cento, ma lo supererò sorridendo come i giorni non sono abituati a vedermi fare praticamente da mai. Senza domande, senza se, senza obbiettivi, senza scopi, senza ma, senza forse, senza e se poi, senza ma non so, senza vedremo, senza devo pensarci, senza forse non è il caso, senza sarebbe meglio che, senza orpelli, senza pesi, senza niente che non sia quello che inspiegabilmente vuoi, vogliamo scegliere. Ferma le mie mani. Non le fermare.


martedì 24 settembre 2013

Lettera dal passato recente.



Nemmeno ci credo che ero con te e tu con me e le ore sono passate serene come se ciascuno lasciando per qualche giorno la propria vita lontana fosse tornato a quella più giusta, più piena, più bella, quella che forse gli spettava da tempo. O forse no. E scrivo anche mentre dall'altra parte del telefono voci sconosciute mi dicono cose vuote, vane, inutili, cose che non ricorderò nemmeno per un minuto. Niente è come sentire la tua mano che chiede al mio corpo di avvicinarsi. Niente è come avvicinarsi. Niente è come scriverti sapendo che ti piace quando ti rileggo dentro alle mie parole e la tua bocca si rassegna a una smorfia inevitabile che sembra un sorriso. Una smorfia che è un sorriso. Un sorriso che è il mio sorriso. Vieni. Torna. Aspettami. Arrivo. Parlami di tutte le cose che ti si sono appoggiate addosso durante queste lunghe giornate che sapranno stupirci diventando un giorno soltanto il ricordo di una distanza. Ti penso poiché mi rende felice. E non ho paura di dirtelo.


La maionese impazzisce, ma pazzi dentro a un tramezzino non ne ho ancora mai visti.

C'è sempre bisogno di rumore intorno per capire bene certe cose dette sottovoce. Certe cose sottovoce si confondono meravigliosamente in mezzo a milioni di altre che non vuoi sentire. Acuire l'udito è fondamentale per capire. Per capirsi. Le cose che voglio non sono mai state così poche. Mai così chiare. Ciascuna delle cose che voglio non è mai stata così complessa. Chissà dov'eri quando non osavo alzare lo sguardo per provare a cercare quello meraviglioso che ho poi voluto trovarmi di fronte con tutte le forze. Chissà dov'eri quando non sapevo che forse stavi aspettando che passassi tanto vicino da non poter fare a meno di sentire il tuo odore. Il tuo odore che non si dimentica, che diventa la traccia segreta che seguo senza guardare. Ho un centinaio di domande appoggiate tra il palmo della mano e il petto che pulsa senza che possa oppormi a certi sobbalzi. Ho un migliaio di dubbi stretti tra la spalla e il viso che sorride senza che possa fermare certi ricordi che nemmeno hanno ancora diritto di esistere. Ho due milioni di paure che baciano senza sosta la bocca dello stomaco senza che possa anche solo cercare di interrompere questo loro morboso parlarsi per mezzo del desiderio. Ho due mani e non sapevo che avrei trovato dove riporle. Ho due braccia e non immaginavo potessero servire a stringere senza far male. Ho due occhi e non credevo possibile tenerli aperti per ore sul sonno silenzioso di qualcuno, senza nemmeno bisogno di scomodare di tanto in tanto le palpebre. Durante i pasti ogni tanto mi alzo senza aver finito, illudendomi di potermi concedere di nuovo il premio che mi sono preso una volta, mentre intorno era un caldo infernale, e dentro persino peggio, e di fronte tu che non te lo aspettavi e mi hai guardato con sguardo stranito ma felice, combattivo ma complice. Avvicinati. Anzi no, resta dove sei, mi avvicino io. Tu conosci le poche cose che accadono senza dover fare niente per favorirle. Sono un numero ristrettissimo di cose senza le quali è persino possibile morire. Respirare è una di queste. Avvicinarsi, guardarti negli occhi, appoggiare lentamente le labbra che non smettono mai di parlare alle tue che restano a loro volta immobili come se avessero braccia larghe per dire vieni, è un'altra delle rare faccende a cui non si può porre rimedio, se non provando a concedersi la libertà di fare esattamente quello che sembra naturale da sempre. Nei pensieri lunghi mi piace moltissimo perdermi, illudendomi di poterti portare con me, tenendo la tua mano intrecciata alla mia senza regolarità. Con una mossa veloce ti prendo una parte delle dita e intorno ci chiudo alcune delle mie, ogni volta in modo diverso, ogni volta in maniera fintamente furtiva. Io non chiedo la tua mano. Io prendo la tua mano. Io non chiedo di poterti parlare. Io ti parlo. Io non voglio più tenere impegnate le mani, se non per disegnare il tuo contorno mentre tengo gli occhi chiusi e il respiro tra le nostre facce è uno soltanto, lunghissimo, lento, inesorabile, inevitabile, bellissimo e interminabile. Lo sai quanto dura mediamente un bacio? Io questa cosa non saprei dirla, so solo che ne ho dato uno che non mi ha più permesso di riprendere fiato. Ti accompagno ogni volta che muovi un passo e da te voglio imparare a camminare senza temere di non sapere a memoria il percorso. Ci sono ogni volta che ti giri e forse per un attimo hai dimenticato che qualcuno ti sorride accanto da un piccolo pezzo di strada. Il tuo è il sollievo che una volta affidavo alla notte. Il tuo è il cuore che una volta sentivo battere lontano e non sapevo dove fosse il caso di voltarmi. Il tuo è il destino di cui voglio avere paura. Il tuo è il silenzio che voglio cantare. Il tuo è questo moto ininterrotto che muove le mani. Ti aspetto. Ti aspetto forte. Fortissimo.



venerdì 20 settembre 2013

Quando per oggi avrai camminato abbastanza.



Quando per oggi avrai camminato abbastanza, fermati. Fermati e ascolta. Ascolta e pensa. Non pensare troppo. Non pensare troppo alle cose che non meritano lo sforzo dei tuoi occhi socchiusi. I tuoi occhi che sono venuti da Oriente e guardano sempre più lontano di quello che possono toccare con la punta delle dita. Quando per oggi avrai camminato abbastanza, fermati. Fermati e guarda. Guarda e ricorda. Non ricordare troppo. Non ricordare le cose che sono lontane nel tempo e probabilmente impossibili da raggiungere nel futuro. Il futuro che ti mette tanta paura, quasi che fosse già accaduto e si portasse addosso l'onta di una colpa che nemmeno sa ancora di poter commettere. Quando per oggi avrai camminato abbastanza, fermati. Camminerò per te. Camminerò come ho fatto sempre, senza sapere bene dove andare, ma questa volta capendo perfettamente perché. Tengo stretti tra il viso e la spalla sinistra una bocca, due occhi e un naso che prima della partenza hanno preso lentamente quel che potevano conservare per qualche ora delle successive, mentre momentaneamente mi allontanavo. Camminerò per te. Camminerò come fanno i ricchi di spirito, coloro che hanno trovato la fede in qualcosa, e con essa la fiducia e la forza per camminare senza sapere quando potranno fermarsi. Camminerò come fanno le dita tra i capitoli troppo lunghi, precedendo gli occhi e sbirciando dove finirà il prossimo e comincerà il successivo. Quando per oggi avrai camminato abbastanza, fermati. Togliti gli abiti pesanti, regala all'acqua il contatto con le tempie, stenditi un attimo dove vorrei aspettarti in silenzio, chiudi gli occhi e ascolta. Ascoltami. Parlerò per te. Parlerò come non ho mai fatto prima, segretamente e soltanto per te. E le foglie cadranno e saranno secche e immobili nonostante il vento, e il letto sarà rigido come il pavimento che ha saputo osservare il miracolo del pomeriggio indimenticabile che, insieme alle labbra congiunte di due sconosciuti, ha già trovato comodamente posto tra i ricordi migliori. Parlerò per te e tu ascolterai senza desiderare di fermarmi. Parlerò con te. Parleremo. Muoveremo a ogni istante le labbra come nella più fitta delle discussioni e intanto lo stomaco ci si sarà raccolto in un pugno, stretto e meravigliosamente inestricabile. Un unico pugno per due stomaci ingarbugliati. Finalmente la lingua sarà la nostra lingua, il suono sarà il nostro suono, il silenzio sarà il nostro silenzio, il nostro odore sarà il tuo odore. Quando per oggi avrai camminato abbastanza, fermati. Fermati soltanto per un momento e lascia che riposi anche io. Lascia che guardandoti possa trovare finalmente sollievo allo sforzo continuo e ininterrotto del tenere gli occhi sbarrati per cercare di vederti ovunque, persino oltre l'orizzonte, dove anche le mastodontiche navi commerciali spariscono in fretta. Quando per oggi avrai camminato abbastanza, fermati. Fermati ma non mi fermare, poiché voglio andare con te dove decideremo insieme di arrivare. Quando per oggi avrai camminato abbastanza, fermati. Non aver fretta, riposa e sorridi. Io aspetto, ché è una novità bellissima e non mi dispiace. Io aspetto d'esser chiamato per nome. Aspetto di poter provare quello che non ritieni possibile. Aspetto di poterti rivedere. E intanto ti guardo. Sempre. Che è la parola bellissima che abbiamo scelto per oggi.


sabato 14 settembre 2013

Le mani.


Prima di lamentarmi ogni volta del mio, spendo un pensiero per il mestiere terribile che è stato riservato alle mani. Ci hai mai pensato alle mani? Nemmeno l'uomo tutto intero riesce ad arrivare dove possono spingersi le dita della mano, pigiando velocemente e con forza sopra le lettere inebetite di una tastiera, oppure muovendo vorticosamente la punta di una biro sopra un foglio di carta. Esse si muovono a ogni comando anche solo accennato, non conoscono la pace, debbono passare tutta la vita in guardia, pronte a essere scatenate contro qualcosa o qualcuno. Le mani non sanno mai se nei dieci minuti successivi dovranno essere pugno e abbattersi contro una mascella impertinente, oppure palmo per contenerne un altro, o ancora carezza per porre rimedio a certe mancanze che l'uomo non riesce ad evitare. Le mani non riposano nemmeno quando il resto del corpo dorme, poiché ogni volta che il sonno s'interrompe brevemente debbono occuparsi di cercare qualcuno accanto, e non ti dico la gravità del compito se qualcuno accanto poi non c'è. Ma tu queste cose le sai, ne sono certo, tu che delle mani hai giusta considerazione e alle quali riservi un posto invidiabile lungo i fianchi. Non l'avrei mai detto che un giorno avrei scambiato dieci dita per due occhi, ma adesso che è successo posso confessarti che mi sembra di non aver mai desiderato altro, e che con quegli occhi io possa scrivere persino meglio. Non l'avrei mai detto che un giorno avrei finalmente capito cosa significa un abbraccio in cui vuoi entrare tutto intero per disintegrarti e non uscirne mai più, di quelli che dici un sacco di cose senza dirne nessuna, di quelli che mentre ti concedi il lusso degli occhi chiusi, discuti animatamente con l'odore di chi ti si appoggia al petto. Non l'avrei mai detto che un giorno avrei baciato qualcuno all'ombra di un albero lontano, vicino a una giostra spenta, in una giornata caldissima, lontano da tutto e da tutti, dopo aver giaciuto su un pavimento riservato alle poche foglie bruciate dagli ultimi giorni di luglio. Non l'avrei mai detto che poi fosse così difficile tenere degnamente impegnata la bocca, provare ad arrestarne il fremito mentre ascolta il richiamo di quella dall'altra parte del telefono. Mai avrei detto, lo giuro, che avrei voluto sapere tutto, né che avrei chiesto un giorno a qualcuno di raccontarmi il suo passato. Non ho un elenco delle cose da fare, né uno delle cose di cui avere paura, nemmeno uno delle parole che non mi piacciono, né una lista degli errori grossolani che temo di fare, per evitare i quali finisce sempre che poi non faccio nemmeno la cosa giusta. Non avrei mai pensato di dirlo a qualcuno, ma tu muovi le mie mani.


giovedì 12 settembre 2013

Dove ti ho già vista.


Non mi ricordo bene dove, eppure ti ho già vista. Forse tutte le volte che ho girato a piedi intorno alla città ed era inverno, e il mare non mi sembrava affatto stesse sorridendo, e il freddo mi diceva di tornare indietro a ogni angolo, e io invece abbassavo lo sguardo per sottrarre la bocca al gelo ed ecco, là, dentro ai passi contro il vento, sull'asfalto che non ha mai fatto niente per facilitare il mio cammino, devo averti vista proprio dentro a quei passi veloci eppure incerti. O forse no. Non mi ricordo dove, eppure ti ho già vista. Dev'essere stato quel giorno che mi sono chiesto perché, ed era già ormai un numero immenso di volte che non avevo una risposta certa a una domanda tanto sfacciata. Ho incrociato allora, credendo che fosse per sbaglio o per caso, qualcuna delle tue parole. Sorridendo sono rimasto un momento a rileggerle e pensare che forse non tutto era davvero perduto, poiché qualcuno sapeva prendersi cura dei pensieri messi nero su bianco più o meno come ho sempre amato fare io. Persino meglio. O forse no. Non mi ricordo, eppure ti ho già vista. È probabile sia capitato quando hai accarezzato lievemente uno dei miei pensieri e ho creduto che volessi dirmi qualcosa, poi la corsa, la stupida corsa verso un male peggiore mi ha distratto e allora m'è rimasto solo il dubbio di aver dimenticato di fare qualcosa d'importante, di bello persino. Hai presente quando metti le mani in tasca prima di partire? Si, tu lo sai. Hai presente quando provi a rileggere in mente una lista delle cose da prendere che avresti dovuto scrivere e poi hai preferito fingere di dimenticare, impiegando quel tempo prezioso a guardare il soffitto che ti sorrideva? Ecco, quella lista che prima di essere arrivato in fondo non sai già più cosa c'era in cima. Si, forse ti ho vista in uno di quei momenti in cui ho pensato che portare in viaggio qualcuno è l'unico modo per non doversi preoccupare di aver preso tutto quello che serve davvero. O forse no. Non mi ricordo, eppure ti ho vista. Passavi inquieta tra le povere cose di uno sconosciuto e velocemente alzando lo sguardo ti chiedevi che cosa ci fosse di vero dentro al costume stantio di un simile egocentrico attore. In quell'istante ho probabilmente pensato che ci fossero lunghi momenti, e non so bene perché, in cui tu non sorridessi, prestando piuttosto l'orecchio al futuro per sentire il rumore che ti era riservato, o invece appoggiando la faccia al passato sperando che per una volta non ne venisse baccano. Dev'essere stato allora. Adesso mi sembra di ricordare, ho provato il breve sollievo della calma, delle cose dette in fretta, della pelle su cui parlare muovendo le labbra ed evitando ogni suono. Ho pensato che avrei voluto fermarmi e finalmente riposare e che forse non avrei avuto paura di rimettermi in marcia. O forse no. Non ricordo, eppure ti ho vista. Mi sovviene chiaramente il sorriso sottile e leggero a cui non ho volontariamente posto rimedio dicendo a me stesso — non so davvero bene perché — che quella sconosciuta, in qualche modo sempre presente, doveva serbare da qualche parte un sentimento gigantesco eppure leggero, bianco e accogliente, silenzioso e finalmente sufficiente a lenire certi dolori. Mi ricordo anche di avere invidiato la sua capacità di riflettere prima di scrivere e presumibilmente parlare, forse per via del desiderio che ho sempre avuto di essere meno impulsivo. O forse no. Ricordo, ti ho vista. Ed è stato un momento che ho tenuto a lungo lontano. Per un tempo terribilmente grande, dilatato e pesante come una vecchia coperta che ancora conservo, fatta dalle mani instancabili della mamma di mia madre più di quarant'anni fa con quel che restava dei calzini di lana bucati e ormai impossibili da sistemare di nuovo. Ecco, vedi, questa coperta ha una forma strana che non sapresti mai scegliere qual è il verso giusto, con le maglie larghissime che ci si vede attraverso, eppure pesante da farti sentire amorevolmente schiacciato. È calda, una coperta a maglia larga che ci passa il freddo attraverso ma tu non lo senti. Quelle sono le mani di chi ha cresciuto una carovana di bambini con l'unica forza possibile, quella delle cose faticose e giuste. E la conservo per farne un regalo a ogni inverno. E temo il giorno in cui sarà il ricordo di qualcuno. Ma non temo il freddo, quello non lo temo affatto. O forse no. Ti ricordo. Come si fa con le pochissime cose delle quali hai capito che non è il caso di avere paura.






martedì 10 settembre 2013

Ho camminato tanto.



In tutti questi anni ho camminato molto. Moltissimo. Ho cominciato fermandomi a ogni angolo, sedendomi a riposare, cercando di capire perché stessi muovendo a nuove mete e che forma queste potessero avere, non vedendole neanche lontanamente all'orizzonte. Ho camminato tanto, però. Così il fiato s'è fatto spavaldo, il petto più grande, le costole larghe, il respiro regolare e potente e persino il cammino s'è fatto corsa. In tutti questi anni ho corso molto. Moltissimo. Mi sono fermato regolarmente ma per pochi minuti, quelli necessari a sentire il sudore cadere dalla fronte e prima di arrivare alla bocca assetata, passare sopra gli occhi felici per la fatica, stupiti per quello che in lontananza ancora non si vedeva neanche piccolo così. Allora i muscoli delle gambe hanno preso a muoversi anche durante le notti giuste in cui al sonno non ho saputo resistere. Ed è quella la corsa più bella che il corpo umano possa concedersi, il moto regolare delle gambe stanche, assecondato dagli occhi chiusi e dal sogno. Nel sogno non dubito di esser passato spesso accanto a qualcosa, o qualcuno, di averci girato intorno, di aver teso la mano senza che fosse accettata, di averne sentito l'odore senza poterlo conservare, di aver guardato gli occhi puntati lungamente al suolo, di aver sperato che la gioia di quella sconosciuta alzasse la testa e si lasciasse vedere. Delle corse che ho fatto di notte, ricordo il senso immenso della sconfitta che mi assaliva al mattino, quasi che fossi arrivato ogni volta ultimo. Ho camminato e corso molto. Moltissimo. E sempre facendo attenzione a non urtare chi stesse passando lentamente lungo la strada, sperando che ciascuno, guardandomi negli occhi pieni di desiderio, capisse dove stessi andando così di fretta e mi lasciasse il passo. Ma tu lo sai, le necessità personali prevalgono su ogni altra, così ho imparato a farmi spazio senza toglierlo. Poiché la stanchezza non risparmia nessuno, sono caduto spesso. E siccome non so mai bene come ripartire, non mi sono fermato, nonostante tutto, anche se avrei voluto, anche se forse sarebbe stato meglio, ma poi — ho sempre pensato — meglio per chi? Ci si dimentica spesso e inconsciamente di quello che non si è potuto prendere quella volta che lo si è desiderato. Ma non definitivamente. Ho girato l'angolo. Ho alzato le ginocchia al mento per correre più forte. Ho perso il respiro, il controllo, la concentrazione, la forza. Ho ritrovato il sorriso, la gioia, quando ho incrociato uno sguardo finalmente alto, puntato sul mio, come se finalmente qualcuno avesse deciso di spiegarmi il motivo del viaggio. Facciamo insieme due passi. Due. Intanto mi concedo un piccolo regalo ogni giorno, scendendo da un treno qualsiasi, arrivando in una stazione qualunque, stupendomi ogni volta di fronte a quel che i ricordi sanno restituirmi.




giovedì 5 settembre 2013

Mi capita spesso.


Mi capita spesso quella cosa dell'odore, ma non te la dirò. Sai quella cosa dell'essere apparentemente immerso nelle chiacchiere, in mezzo alla gente che parla, ed è estate finalmente, e almeno per un poco niente di orrendo ti aspetta l'indomani? Ecco, quella roba là. Chiacchiero di cose inutili come se si trattasse di mettere nero su bianco i punti fondamentali della conquista del mondo. Così impegnato a dispensare sciocchezze a voce alta, guardo ovunque, cercando di non abbassare lo sguardo al petto, dove tengo nascosto in un angolo tutto quello per cui vale davvero la pena parlare. O restare una buona volta in silenzio. Mi capita spesso quella cosa dell'odore, ma non te la dirò. Ho la testa immersa nell'acqua, la lingua impastata dal sale, la pelle sferzata dal sole e cammino dove finisce la sabbia e comincia il mare. Poi si ritrae. Poi ricomincia. Poi si ritrae. E ciascuna delle parole che non ho detto fino a quel momento, ciascuna di quelle che ho deciso di provare a tenere segreta, scalpita come se mi volesse regalare un dolorosissimo parto, ma io so bene come ricacciare dentro tutto quello che domani venendo alla luce sarà enormemente più bello. Mi capita spesso quella cosa dell'odore, ma non te la dirò. Inciampo continuamente nelle cose, spesso anche nelle persone, chiedo scusa e vado avanti, quasi come se quello che vedo là in fondo, lontano, sia molto più importante di quanto mi passa accanto in quel momento. Poi mentre sorrido, o guardo l'orologio, o cerco un bar nel quale chiedere dell'acqua, o ascolto chi mi sta parlando, improvvisamente lo sento. Lo sento fortissimo e mi manca il fiato, ed è solo per non dover spiegare qualcosa che forse in parole stavolta proprio non saprei mettere, solo per questo non mi piego in due appoggiando le mani alle cosce e le gambe sulle ginocchia. È questione di un minuto, sorrido spaventato, respiro velocemente perché non finisca troppo presto. Mi capita spesso questa cosa del tuo odore, ma non te la dirò.


martedì 3 settembre 2013

Avevo una mappa.



Avevo una mappa e non lo sapevo. La tenevo aperta sotto al palmo delle mani ogni volta che, mordendomi le labbra, chiedevo urlando al pavimento quale fosse la direzione da tenere. Avevo una mappa e non lo sapevo. Tutte le strade erano segnate, percorse, invisibili, inefficaci. Avevo una mappa e non lo sapevo. Era fatta di attese apparentemente senza motivo, di parole casualmente perfette, di stupore repentino, breve, unico, sensazionale. Avevo una mappa e non lo sapevo, un foglio di carta grande da poter ospitare ginocchia e gomiti e un paio di occhi in contemplazione. Avevo una mappa e non lo sapevo. E quando l'ho guardata davvero, mi ha portato finalmente dove non avrei mai detto di esser diretto, dove non sapevo di voler andare, dove non credevo possibile ritrovare il sorriso. Avevo una mappa e tra me e te un'enorme distesa bianca senza indicazioni. Eppure ti ho trovata.



domenica 1 settembre 2013

Se ci fosse a un certo punto abbastanza silenzio.





Se ci fosse a un certo punto abbastanza silenzio, potrei sentire le tue labbra piegarsi inevitabilmente verso il mento e gli angoli della bocca salire agli occhi: il suono del sorriso potrei sentire. Del tuo. Se ci fosse a un certo punto abbastanza spazio, potrei riposare senza togliertene. Se ci fosse a un certo punto abbastanza luce, potrei smettere di annaspare nel tentativo di ricordare una meraviglia che non ha già più tratti precisi. Ieri pomeriggio, smettendo improvvisamente di pensare a quello che stavo facendo, sono arrivato in stazione che il sole era ancora alto e negli ultimi metri prima che il treno mi spingesse in quel gesto violento e insieme amorevole che è l'arrivo, ho realizzato di aver viaggiato per un motivo preciso e così la mano sulla valigia è diventata improvvisamente fredda. E felice. Sono sceso, prestando l'udito all'immenso rumore ovattato che solo quella precisa stazione sa regalarmi ogni volta. Sul predellino, ancora a metà tra il viaggio e la meta, mi sono ricordato di quanto forte possa battere il cuore, di quanto piccolo possa diventare il torace quando hai bisogno di respirare tutta l'aria del mondo. Sono sceso. Dietro una delle grosse colonne ho visto dei colori familiari, dei capelli sciolti, un sorriso strambo che non sai mai se contiene più stupore di quello che dà. Quando i ricordi sono così vivi è possibile che il presente possa esserlo ancora di più. Poi è squillato il telefono. Comincio a non ricordare tutto quello che mi sarebbe piaciuto ascoltassi e che ti ho già detto. Per fortuna in alcuni casi ascoltare di nuovo non è un delitto.