Navighiamo ormai da ventisette anni, undici mesi, venti giorni, ventidue ore e poco più di trenta minuti. Non trascrivo coordinate. Da un pezzo non siamo più in grado di leggere la nostra posizione rispetto alle carte. Da un pezzo le carte giacciono al suolo, ridotte a brandelli dai sorci. Le bestie affamate restano a bordo. Buon segno. Il vascello pare solido ed ancora in grado di reggere il mare. Tra pochi minuti sarà nuovamente tempesta. Il rollìo ha preso a divenire pesante. Esplosioni di luce aumentano per frequenza ed intensità. I sordi rumori, lontani fino al tardo pomeriggio, sembrano ora schiantare le assi ad ogni istante. La stiva è stracolma di immagini. Il Capitano sembra fuori di testa. Continua a ritrarre paesaggi che il resto dell’equipaggio non riesce a vedere. Temo per la vita di tutti. Quando le scorte di serenità si abbasseranno pericolosamente, allora sarà il peggio. Temo per i sorci ormai cari. Saranno i primi a morire tra i flutti. I sorci sanno nutrirsi di qualsiasi cosa. In mezzo al mare però, non troveranno nulla di solido di che sfamare le proprie voraci interiora. Povere le mie bestiole. Mi guardano scrivere, mentre prendo respiro faticosamente. Mi osservano, mentre prendo ristoro lunghissimo tra un capoverso e l’altro. Il Capitano non è più sostegno per gli uomini. Ciascuno si aggrappa al proprio buonsenso. Il Capitano è dimentico dei luoghi di partenza. Tantomeno ricorda dove eravamo diretti quando salpammo. Pur non essendo pochi, invero, abbiamo perso l’abitudine al contatto umano. Trovassimo la terra oggi, avremmo bisogno di rieducarci alla civiltà. Vivere a lungo in tale promiscuità, ci rende indifferenti gli uni agli altri. Il secondo mozzo non scuote le nostre coscienze più di quanto non faccia l’albero maestro nelle giornate di vento. Dopo un tempo determinato che non ho saputo fissare nei numeri, ciascuno smette di esistere per l’altro in quanto privo di qualsiasi forma di novità. Alla stessa maniera delle cortigiane che lasciammo inconsapevolmente per sempre, la sera prima della partenza, navighiamo senza motivo. Non sappiamo quale sia il desiderio comune più forte. Tornare, andare, trovare, affondare. Il moccolo, negli ultimi istanti di luce, nel tentativo di non fermare questo meschino racconto, resiste all’inevitabile fine scoppiettando. Una goccia bollente mi riporta brevemente in vita. Questo piccolo dolore al dorso della mano destra. Un brevissimo attimo di lucidità. Il Capitano è solo, sul ponte. Il Capitano è solo, ovunque. Nessuno gli rivolge più la parola. Li guardo tutti. Tutti mi guardano brevemente, poi tornano alle loro monotone cose. Spesso vorrei discutere del viaggio, chiedere alla mia ciurma il da farsi. Poi resto in silenzio, aspetto. Il Capitano vive solo dei ritratti che, dalla realtà, sembra riportare con estrema cura. Non c’è realtà da dipingere intorno. Egli aspetta. Sono talmente stanco. Lascio il banco sottocoperta. Salgo al timone. Anche stavolta dovrò condurli fuori dalla burrasca. Sono pur sempre il maledetto comandante di questo equipaggio!
lunedì 11 aprile 2011
domenica 10 aprile 2011
La bocca della vanità.
Ho peccato. Ho sbagliato. Ho cambiato troppe cose che avrei dovuto lasciare com'erano. Ho provato e riprovato. Ho respirato senza averne il fiato. Ho corso pochi rischi, troppo pochi. Ho recitato senza copione. Ho mentito senza ritegno. Ho biascicato scuse. Ho immaginato troppo e troppo poco. Ho scritto meno di quel che avrei voluto. Ho sofferto e presto dimenticato. Ho temuto di non dimenticare mai. Ho perso il sonno dei giusti e l'occasione dei meritevoli. Ho masticato invidia e sputato vendetta. Ho riso ma non abbastanza. Ho sussurrato quando avrei dovuto gridare e gridato quando avrei dovuto tacere. Ho messo in spalla troppo silenzio. Ho trascinato troppe intenzioni. Ho trascurato il mare. Ho temuto la notte. Ho guardato senza averne il permesso. Ho eseguito senza capire. Ho regalato quando avrei dovuto vendere e venduto a prezzo troppo basso. Ho sopportato il dolore dell'anima e l'incognita del dubbio. Ho dubitato di ogni cosa. Ho creduto di non credere e ho pregato solo per estremo bisogno. Ho fumato troppe sigarette senza apprezzarne il tabacco. Ho smesso troppe volte di fumare. Ho bevuto senza farci l'abitudine. Ho mangiato per nutrirmi. Ho lasciato al caso quel che avrei dovuto tenere per me. Ho assecondato le paure. Ho disconosciuto il coraggio. Ho apprezzato la solitudine. Ho usato la lingua per sentire il sapore dell'odio. Ho odiato senza cattiveria. Ho creduto di crescere. Ho pensato di vincere. Ho smesso di combattere. Ho desiderato il riposo. Ho riposato senza ritegno. Ho illuso i semplici di spirito. Ho dispensato parole come se fossero vere. Ho nascosto troppi doveri sotto al tappeto. Ho nascosto il tappeto sotto al divano. Ho nascosto il divano in cantina. Ho nascosto la cantina sotto a un palazzo. Ho nascosto il palazzo sotto ad un cielo enorme. Ho nascosto il cielo sotto allo spazio. Ho nascosto lo spazio dentro al petto. Ora lo gonfio, respiro forte e tutto passa.
domenica 13 marzo 2011
A punti.
Se volessi scrivere, dovrei mettermi comodo e chiudere gli occhi un attimo, tirare forte il respiro. Se volessi davvero buttare giù due righe, dovrei roteare la testa sul collo, aspettando che i muscoli dimentichino l'inutile giornata d'attesa. L'attesa, quella inutile, è spesso l'esercizio fisico più logorante. Dovrei sciogliere in acqua bollente qualcosa di profumato e rilassante, da sorseggiare mentre sistemo gli occhiali sul naso. Dovrei avere sulla scrivania almeno una matita, da portare ogni tanto alla bocca. Dovrei riporre in qualcosa almeno un po' di fiducia, se volessi colorare un foglio di carta senza sporcarlo soltanto. Dovrei procurarmi una luce vicina, potente eppure timida, calda eppure disinteressata. Se volessi attingere ai ricordi per farne racconto, dovrei averne di adeguati, conservati con cura, riposti nell'ordine giusto, catalogati, inamidati e pronti per l'occasione. Dovrei avere la forza ed insieme la libertà di non rispondere alla prepotente voce del sonno che chiama, sussurra, sibila, promette, afferra, accarezza, seduce. Se volessi pigiare i polpastrelli sopra le lettere bianche, ricordando con tristezza che per qualcuno è stato un mestiere, dovrei articolare un pensiero di grande respiro, ricco di particolari e promesse. Dovrei incontrare un personaggio e dargli vita e passato ma anche sostanza e futuro, parole ed espressioni. Dovrei creare strada per i suoi passi e tramonti per le sue ombre, baci per le sue labbra e giovani donne per i suoi amori. Dovrei dargli stile e coraggio, capelli al vento ed un piglio assai risoluto. Se volessi arrivare al lavoro, domani, senza la forza per reggermi in piedi e farmi guardare di sghembo da chi mi passa la paga, dovrei raggiungere l'alba con gli occhi iniettati di sangue e la mente trapassata da troppi pensieri. Se volessi scrivere dovrei farlo ora, ma non ho niente da raccontare.
domenica 20 febbraio 2011
Il pianto è servito.
Come l’inusuale pianto della notte
Non verso una lacrima
E’ solo la vita meschina
Un singulto
Un rigurgito
L’anima
Come è odioso soffrire
Questa sofferenza così delicata
Impalpabile
Estrema
Non porto il gesto alla tempia
E tutto finisce nel verbo
Questo fragore che si contorce nel petto è la paura di tutto.
sabato 5 febbraio 2011
Scambiatevi un segno di brace.
Dove la trovo una mente di scorta? Un cervello di ricambio? Una coscienza pulita? Un'anima nuova di zecca? Una sensibilità ricostituita? Una cattiveria meglio radicata? Un piglio severo? Un'insicurezza meno presente? Un motivo valido? Uno scopo preciso? Uno stimolo nuovo? Un amore abbacinante? Un delirio poco evidente? Un coraggio determinante? E un ascensore fuori servizio? Dove lo trovo? Una corda delicata e al contempo priva di scrupoli? Una finestra spalancata sull'asfalto lontano alla vista? Una traiettoria interrotta? Un luogo sperduto e a portata di mano? Nuova vita per i polsi? Dove la trovo? Stimolo per le dita? Vigore per la lotta? Forza, pazienza, tolleranza? Dove le trovo? Vi supplico, datemi una risposta ed in nome del dubbio scambiatevi un segno di brace.
martedì 1 febbraio 2011
Specchio delle mie trame...
Sembra buio. Invece è soltanto quella breve sensazione di cecità causata da un'esplosione di luce. Come svegliandosi nel cuore della notte per un bicchiere d'acqua. Tornando a letto, mentre è flebile la speranza di non beccare in pieno una parete, muovendosi nel buio della casa, fidandosi delle abitudini, della sedimentazione dei movimenti quotidiani. Cercando di raggiungere il giaciglio morbido che ancora conserva il nostro tepore, una veloce svolta a sinistra, una capatina in bagno. Nessuna necessità. Lo specchio però ci aspetta per tutta la notte. Un passo, con le dita assonnate pigiamo l'interruttore, la luce. Un intenso istante di dolore visivo. Macchie verdastre agli angoli degli occhi. Veloci come ghigliottine, le palpebre calano a ricreare un benefico buio artificiale. Poi l'abitudine si fa spazio pian piano, due passi ancora, un gradino, il cuore che batte, d'un fiato lo sguardo all'immagine riflessa. Si, che sollievo. Il viso è il solito, nessuna sorpresa notturna, troppi romanzi macabri, tutto qua. Nel silenzio fisso ed a tratti strafottente delle stanze che dormono, delle strade che tacciono, mentre gli occhi sono puntati negli occhi familiari dall'altra parte del vetro, la paura tremenda di una metamorfosi repentina. Il viso che perde i tratti umani per acclararsi come punizione ai peccati, come giustificazione al malessere. Nulla invece. Le mani lasciano il lavabo freddo sul quale avevano trovato attracco sicuro. La luce è nuovamente spenta. Il passo velocissimo sino al letto. Le coperte si accollano responsabilità che solitamente spettano alle pareti ed al soffitto. Le lenzuola respirano, solo questo, nella notte, può spiegare certi rumori sottili e vicini. Quasi ritorna il sonno tranquillo, la stanchezza meritata. Nella necessità comune di mettersi a giacere sull'altra spalla, distrattamente una mano sul volto. Il terrore che immobilizza i felini domestici mentre l'auto sopraggiunge ad ucciderli, lo stesso terrore impone improvvisamente le mani giunte, il fiato corto e veloce. Le ore passeranno e la fronte gronderà la paura liquida che durante la corsa è sudore. Il mattino tanto lontano quando lo si teme, non arriva mai quando lo si desidera, una ovvietà. Domani, domani mattina, con la luce naturale, tutto sarà passato.
mercoledì 26 gennaio 2011
Messaggio nella poltiglia.
Non hanno forma alcuna queste mie parole raminghe. Non sanno cantare, né parlare, né farsi strada dove c’è buio. Nascono sempre più sporadiche, corrono agli angoli della stanza e siedono sulle ginocchia, con la testa tra le mani. Non hanno forza queste lettere in ordine a formare preghiere insensate. Non sanno imbellettarsi ed apparire sotto le luci fasulle della sera. Restano sempre più spesso dove l’orecchio non le può ascoltare, rasentano i muri, strisciano una fuga meschina, vivono una vita leggera. Non hanno parole queste mie labbra, serrate in uno sformato sorriso, tirate in urlo violento, passite al peso dell’infelicità.
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