Deve essere questo il vano motivo che spinge alla scrittura,
l’insaziabile voracità dell’eterno che tende a sterminare chi ha il dono della
peripezia letteraria. Il doppio salto mortale mi vede atterrare col collo
spezzato. Cingimi d’aria e di tenebra asciutta, di poche parole e gesti
complessi. Dalle dita leggere capisco i bisogni. Dalla voce sottile
intuisco le umane paure. Dal luogo in cui vivi riporto speranze sopra un
taccuino usurato. Ogni coperta riscalda i capelli bagnati dalla tempesta
appena finita. Nell’orto i tuberi in festa sanno d’esser pietanza
e dal grigiore lontano della città di provincia, questo borgo sperduto
pare sommo quartier generale. Splendida epigrafe che ridona la vita ad
ogni sguardo curioso, ad ogni passo estraneo della domenica mattina. La
pietra lungimirante che regala l’immortale desiderio di essere
occhi. L’inesorabile assenza di ogni parola. L’ugola sordida di chi
trascorre supino il limitar dell’eterno. Si chiama riposo tra i vivi,
comunemente rammarico. Tra gli uditori della temuta solitudine della
mezzanotte, fra i quartieri disabitati riposa il gioco funesto di ossa lontane,
lontane nel tempo e violente al ricordo. Il verbo si fa oscuro, alquanto
dubbio, inutile, raro. Lo dissi a chi mestamente recava la mia mano nella
propria, lo dissi che ero al limite del sopportabile, qualcosa di comunemente
umano. Lo dissi a quel signore arguto che teneva tra le dita gli occhiali
pesanti che governano il naso da anni, gli dissi che non avrei atteso ancora a
lungo. Non fui creduto. In quale dubbio ti
posso ancora trovare? Soltanto certezza. Il tuo colore bruno rimane
soltanto certezza ed ancora clamore. Ogni parola che vieta la prosecuzione
della verticale discesa agli inferi. Sento qualcosa di tipico e flebile
provenire dal fondo del petto, un bellicoso residuo d’anima, qualcosa che non
si estirpa come un canino, ancora affondato nella carne gioviale che era
pure trofeo di bambino. Eppure ogni determinato momento pare buono al
pensiero, ideale alla scrittura, ottimo alla profezia. Nulla ancora è come
sembra. Troppo vicino al reale stupore. Apro la bocca e vi entra
soltanto aria di seconda mano. Chiudo gli occhi e la luce non trova riposo
mentre contorce alle palpebre chiuse, ermeticamente serrate. La vita non
entra a far danno, oggi l’occhio riposa, la mente soggiace. Calata la
notte, fuggiti i garzoni, moccoli di candela ovunque, vino che a raccoglierne
ne vengono botti, sordidi odori che a respirarne si vien colti da tremendo
malore, dadi da gioco e tazze d’acciaio, ogni cosa è caduta sul posto dove ci
ha colto in flagrante l’astuzia megera del tempo. Corpetto pesante di
donna vissuta. Vestito. Lenzuolo. Fazzoletto
grondante. Ogni fronte ripete che è meglio la sete e non certo l’eterno
stupore del provare a soffrire. In silenzio decidere di ogni cosa che non
merita giudizio. Abbandonare la pesantezza delle braccia. Dal sonno
lasciarsi dormire.
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